Quello di conferire la cittadinanza italiana ai minori nati in Italia figli di extracomunitari è semplicemente un’opera di buon senso, prima ancora che morale, etica e culturale. Non a caso la Campagna “L'Italia sono anch'io” con l'obiettivo di presentare due proposte di iniziativa popolare sui temi della cittadinanza e del voto agli stranieri, è stata un successo. L’iniziativa era stata promossa nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia, da 19 organizzazioni (Acli, Arci, Asgi-Associazione studi giuridici sull’immigrazione, Caritas Italiana, Centro Astalli, Cgil, Cnca-Coordinamento nazionale delle comunità d’accoglienza, Comitato 1° Marzo, Coordinamento nazionale degli enti locali per la pace e i diritti umani, Emmaus Italia, Fcei – Federazione Chiese Evangeliche In Italia, Fondazione Migrantes, Libera, Lunaria, Il Razzismo Brutta Storia, Rete G2 - Seconde Generazioni, Sei Ugl, Tavola della Pace, Terra del Fuoco).
E infatti gli italiani sono d’accordo nel 70 per cento dei casi. Non lo diciamo noi, lo dice l’Istat.
Quanto all’altro 30 per cento, siamo sicuri che tra questi italiani regna l’incertezza, più che le convinzioni. Grazie alla politica. Una politica puerile che più che chiarire i vari aspetti della questione, tende a dividersi a seconda degli aspetti viscerali della questione, intorpidendo le acque anziché rischiararle.
Come il Movimento Cinque Stello di Grillo, che tende a dire di no alla cittadinanza ai figli degli extracomunitari per motivi sostanzialmente riconducibili a ragioni di marketing politico: attrarre i leghisti delusi e qualche qualunquista dell’ultima ora. Anche in altri partiti prevale questa visione, come nel Pdl e persino in qualche fazione controcorrente del Pd, che in quel partito non manca mai. “Non è la priorità” ci si sente spesso dire. In un’intervista a Famiglia Cristiana l’allora premier Monti spiegò di essere totalmente d’accordo ma di non poterlo fare per non “irritare” la maggioranza che reggeva il suo governo di tecnici. Quanto ai soloni che ci insegnano capziosamente che in Italia la cosa non sarebbe per nulla facile, cavillando e disquisendo, rispondiamo che siamo i primi a saperlo, e infatti in questo dossier affrontiamo il problema in tutta la sua rilevanza. Non potrà certo essere un meccanismo automatico quella della cittadinanza per “ius soli”. Ma ci si può arrivare, se c’è una volontà politica autentica.
Francesco Anfossi
“E' opportuno almeno riconsiderare, a legislazione vigente, il tema della cittadinanza, in un'ottica di semplificazione delle procedure, e la riforma della cittadinanza, in tal senso, rappresenta un'esigenza concreta, diffusa, indifferibile e, al tempo stesso, una possibilità di crescita per l'Italia”.
Così il ministro per l'Integrazione, Cécile Kyenge, si è espressa alla Camera, lo scorso 15 maggio, sul tema della legge di cittadinanza.
Il ministro è chiaramente a favore di una una nuova legge in materia fondata “sul principio generale dell'acquisto della cittadinanza in base alla nascita sul territorio nazionale” e le sue dichiarazioni sono state spesso accolte in modo polemico da esponenti della Lega e del centrodestra, secondo i quali il riconoscimento del principio dello “ius soli” non rientra nel programma del Governo Letta.
Il ministro Kyenge è stato anche accusato di “invasione di campo”, dal momento che la materia della cittadinanza è di competenza del ministero dell'Interno.
Alla Camera, nella seduta del 15 maggio, il ministro ha respinto le critiche. “Nessuna invasione di campo era nelle mie intenzioni”, ha detto, “anzi con i colleghi ministri dell'Interno e della Giustizia ho un ottimo rapporto di collaborazione e di scambio di opinioni.
L’intendimento del Governo è quello di non far mancare l’ampio impegno ai lavori del Parlamento nel momento in cui, e io mi auguro a breve, inizi l’esame dei numerosi disegni di legge presentati sulla cittadinanza”.
“Non ho mai fatto riferimento a una specifica soluzione”, precisa il ministro Kyenge, “peraltro, secondo me, potrebbero già essere semplificate, utilizzando le vigenti leggi, le attuali procedure che hanno ingolfato gli uffici pubblici, imponendo ad esempio il diffuso uso dei collegamenti informatici”.
Le considerazioni del ministro partono da alcuni dati dai quali “non si può ormai prescindere".
Roberto Zichittella
Pare che in Italia il problema della cittadinanza ai minori figli di extracomunitari sia un tema controverso. In realtà non è così. Secondo l’Istat, oltre il 70% degli italiani è favorevole alla cittadinanza per i minori nati e cresciuti nel nostro Paese.
È infatti prima di tutto una questione di “buon senso” e dell’insensatezza di crescere come “italiani con cittadinanza straniera”.
In Italia, oggi vivono tra 4 e 5 milioni di stranieri, 4 milioni e 230mila i regolari.
Sempre più è una realtà stabile: oltre la metà ha un permesso di soggiorno da almeno 5 anni. Con la stabilità, aumentano famiglie e bambini. Uno straniero su quattro è minorenne: 932mila sono i minori e 572mila sono nati nel Belpaese.
La percentuale degli “stranieri nati in Italia” è in crescita, basti pensare che negli asili, tra gli stranieri, i nati in Italia sono quattro su cinque.
È noto come gli immigrati ringiovaniscano il nostro Paese. Il 19% dei nati nel 2011 ha almeno un genitore straniero, a fronte di un Paese che invecchia e a cui, secondo il Censis, serviranno altre 500mila badanti nei prossimi 15 anni.
Inoltre ragazzi stranieri crescono e frequentano la scuola: tra i banchi, sono l’8,4%. Questa percentuale comprende anche bambini nati e cresciuti qui, che crescono come i compagni di classe “italiani da più generazioni”.
Successivamente lavorano in tutti i settori; un dato per tutti: senza stranieri, in un anno a Milano ci sarebbero 2.600 imprese in meno.
Chi è nato in Italia ed è stato residente senza interruzione fino alla maggiore età, una volta spente le diciotto candeline, può chiedere che gli venga “concessa” la cittadinanza italiana.
I pochi dati disponibili ci dicono che ogni anno il 37% dei giovani stranieri nati in Italia, che pure risultano residenti al momento della maggiore età, non ottengono la cittadinanza italiana per mancanza di requisiti. Potranno dunque divenire italiani in seguito. Ma in Italia, il tasso di naturalizzazione è dell’1,9%, un tasso bassissimo, non corrispondente alla realtà, e con attese burocratiche che arrivano anche ai 4-5 anni. E questo accade mentre essi, in effetti, non sono immigrati ma “stranieri a casa propria”.
Stefano Pasta
Cittadini per diritto di sangue, cioè per discendenza, o perché si nasce su un territorio? Parte da qui il dibattito sul cosiddetto “ius soli”, latinorum da giuristi improvvisamente calato nei titoli dei giornali. Tutto è iniziato con una dichiarazione di intenti a favore dello ius soli del neoministro dell’integrazione Cecile Kyenge alla trasmissione di RaiTre In ½ ora, a fronte della quale si è scatenata una reazione contraria più o meno scomposta.
Il tema è certamente serio: chiama in causa il Paese che vogliamo diventare, ma, a giudicare dalle modalità, si direbbe che il nostro sia stato finora un dibattito “di scuola”, condotto dando per scontato che le due alternative, sangue e suolo, siano secche, automatiche e prive di possibili correttivi. La realtà invece è un po’ più articolata e complessa.
Ma come funziona davvero oggi in Italia e come potrebbe funzionare, qualora si scegliesse la strada dello ius soli, l’acquisizione della cittadinanza italiana?
Secondo le leggi che disciplinano attualmente la cittadinanza (Legge n.91/92 e Dpr n. 572 del 1993) oggi si è automaticamente italiani se si nasce da un genitore italiano ovunque nel mondo. Oppure se si nasce in Italia da ignoti, da apolidi, o da genitori che provengono da un Paese che non dà la cittadinanza ai figli dei propri cittadini nati all’estero. Tutti gli altri hanno la cittadinanza del Paese d’origine dei genitori.
A meno che non vengano adottati o riconosciuti da un italiano o che non diventi cittadino italiano il genitore con cui convivono.
Detto questo la cittadinanza si può acquisire, nei casi previsti per cittadini stranieri di nascita. Hanno i requisiti: il figlio naturale che venga riconosciuto, maggiorenne, dai genitori italiani.
Lo straniero nato in Italia e legalmente residente in Italia fino alla maggiore età. Lo straniero, residente in Italia da almeno due anni al compimento della maggiore età, che abbia un genitore o un nonno che sia stato cittadino italiano per nascita.
E lo straniero che abbia assunto pubblico impiego alle dipendenze dello Stato Italiano e che abbia un nonno o un genitore che sia stato cittadino italiano per nascita.
In assenza di “radici” italiane si può venire naturalizzati. Per matrimonio con un italiano/a. Oppure se si è stranieri residenti legalmente in Italia da per periodi di diversa durata secondo i casi: 10 anni se si è extracomunitari, 4 se cittadini dell’Unione europea.
Tutto questo determina dei paradossi. Per esempio: fa meno fatica a diventare cittadino italiano un adulto che abbia sempre vissuto altrove, senza legami effettivi con il territorio italiano, se ha un nonno che sia stato cittadino italiano per nascita (il caso dei calciatori cosiddetti oriundi), rispetto a un ragazzo nato in Italia da genitori stranieri, che abbia sempre vissuto qui e non sappia nulla del suo Paese d’origine. Se al primo bastano tre anni di residenza legale in Italia, il secondo deve aspettare la maggiore età.
E allora “ius soli”?
Se, come si è visto l’automatismo delle ius sanguinis determina dei paradossi anche lo ius soli se applicato in automatico potrebbe determinarne.
Come osserva il Presidente del Senato Pietro Grasso, forte della sua esperienza di ex magistrato, se bastasse nascere in Italia per essere considerati italiani, senza altri correttivi, il Paese divenendo di fatto appetibile per le madri straniere in attesa, potrebbe diventarlo “sinistramente” anche per i criminali che traggono illeciti guadagni dalla tratta di esseri umani.
Altrettanto, nel rendere cittadini neonati che potrebbero rimanere in Italia il tempo necessario a nascerne cittadini per poi essere ritrasferiti altrove, lo ius soli da solo non risolverebbe il problema dei figli di stranieri arrivati in Italia piccolissimi e cresciuti qui: non essendo nati in Italia, pur parlando italiano e avendo frequentato le nostre scuole, magari fin dalla prima infanzia, resterebbero stranieri.
Anche per questo – e così si fa in molti Paesi – avanzano le proposte di cosiddetto ius soli “temperato”, in cui si svincoli il legame automatico dalla cittadinanza dei genitori per individuare al suo posto un insieme di regole che facilitino il riconoscimento “dell’italianità” del bambino nato o cresciuto in Italia, magari legandolo alla frequenza della scuola. Un concetto che Andrea Riccardi ha definito “ius culturae”, perché è la cultura che forma, anche più della nascita, l’identità e l’appartenenza.
Ovviamente la mediazione non cancellerà, com’è giusto che sia, il dibattito, semplicemente lo sposterà sulle regole di “temperamento”, che alcuni vorranno più restrittive altri meno.
Elisa Chiari
Uno dei volti nuovi e giovani del Parlamento italiano è quello di Khalid Chaouki , 30 anni, italiano di origine marocchina, deputato del Partito democratico.
“Sono nato a Casablanca”, racconta, “e cresciuto in Emilia, fra Parma e Reggio. Sono arrivato in Italia nel 1992 con mia madre e i miei fratelli, mentre mio padre era arrivato qui due anni prima.
Sono sposato con Khalida e ho due figli, Adam e Ilyas. Faccio il giornalista e sono responsabile dei Nuovi Italiani del Pd. Dal 2004 sono cittadino italiano”.
Khalid, come sta vivendo questa esperienza di parlamentare?
“La vivo con un senso di enorme responsabilità. Sento di essere la voce degli immigrati di seconda generazione e vorrei davvero che non fallisse l'ennesimo tentativo di cambiare la legge sulla cittadinanza”.
Le dichiarazioni in questo senso da parte del ministro dell'integrazione Kyenge hanno scatenato polemiche, secondo lei ci sono oggi in Italia le condizioni per una nuova legge sulla cittadinanza?
“Al di là delle polemiche, oggi c'è comunque un'attenzione nuova rispetto a prima, che coinvolge in modo trasversale tante persone e riflette un po' la situazione della società. Sento un'attenzione nuova e questo lo vivo sia negli incontri quotidiani con i cittadini sia dentro il parlamento, anche con i colleghi di altri partiti”.
A questo proposito, come valuta la firma da parte di tre senatori del Movimento Cinque Stelle del disegno di legge sullo ius soli?
“Abbiamo parecchi segnali interessanti dai deputati e senatori del M5S. C'è una condivisione del principio, manca ancora però una presa di coraggio per uscire pubblicamente. Noi ci aspettiamo, al di là della buona volontà individuale, una presa di posizione pubblica di questi nostri colleghi”.
Ma in concreto come vorrebbe veder applicato lo ius soli?
“Premetto che non abbiamo mai chiesto il riconoscimento automatico della cittadinanza alla nascita per tutti i bambini stranieri.
Poniamo alcune condizioni. Per noi il radicamento della famiglia degli immigrati è fondamentale, quindi la cittadinanza va garantita alla nascita per chi è figlio di genitori che sono residenti in Italia da almeno cinque anni. Invece, per chi arriva in Italia da piccolo, la cittadinanza può arrivare al completamento del ciclo scolastico. Ci interessa garantire ai bambini di fare un percorso scolastico e di crescere da italiani, questa è la priorità”.
Che vantaggi porterebbe il riconoscimento dello ius soli?
“Il vantaggio principale sarebbe quello di far crescere in casa degli italiani a tutti gli effetti, altrimenti si corre il rischio di avere una generazione di giovani rancorosi e in qualche modo rinnegati dalla propria madre patria, che è l'Italia. Alla base di una nuova legge sulla cittadinanza
c'è quindi un'idea di coesione sociale, di costruzione di un'identità italiana più forte, inclusiva dei nuovi italiani, che è fondamentale per il futuro dell'Italia”.
Roberto Zichittella
La città di Palermo, millenario crogiolo di etnie e culture differenti, si pone all’avanguardia nell’integrazione degli immigrati e nella lotta contro il razzismo. Un confortante segnale nella direzione dello ius soli è rappresentato, infatti, dal conferimento della cittadinanza onoraria a 89 bambini e giovani stranieri nati nel capoluogo siciliano. Nello stesso tempo, il Consiglio Comunale di Palermo approva l’istituzione di una innovativa “Consulta delle culture” per affermare il diritto alla partecipazione degli immigrati.
Gli 89 bambini e ragazzi – divenuti cittadini onorari di Palermo dopo una grande festa multietnica - provengono dall’Africa, dall’Asia e dal Sudamerica. Nati nel capoluogo siciliano da genitori stranieri, frequentano regolarmente le scuole di ogni ordine e grado.
Nei Cantieri Culturali della Zisa, sede della cerimonia ufficiale, l’atmosfera è gioiosa ma non mancano le lacrime di alcuni genitori, residenti a Palermo da tanti anni e orgogliosi di vedere i propri figli divenire cittadini onorari. I più piccoli scorazzano da una parte all’altra dei Cantieri, i più grandi dichiarano ad alta voce il loro orgoglio di essere palermitani. D’altronde, alcuni parlano persino con l’accento dialettale locale e tifano per la squadra del Palermo (purtroppo retrocessa in serie B).
L’iniziativa della giunta comunale guidata da Leoluca Orlando si inserisce nell’ambito del progetto “Io come tu. Tutti uguali di fronte alla vita, tutti uguali di fronte alla legge”; un progetto promosso dall’Unicef per garantire i diritti delle bambine e dei bambini.
Soddisfatto il sindaco Orlando: “In attesa che lo Stato italiano si doti di una legge che dia attuazione formale a ciò che è già nella realtà del nostro Paese, la città di Palermo, con questo gesto simbolico, vuole confermare la propria tradizione di capitale multiculturale e dell’integrazione. Occorre una nuova normativa che parta proprio dai diritti dei più piccoli”.
Il conferimento della cittadinanza onoraria avviene all’indomani della storica approvazione dell’istituzione della “Consulta delle Culture”, un importante strumento per la partecipazione degli immigrati (comunitari, extracomunitari o apolidi) alla vita politica.
Gli obiettivi della Consulta (dove saranno rappresentate tutte le principali comunità residenti a Palermo) sono molteplici: dialogo interculturale e religioso, prevenzione di ogni forma di discriminazione e di xenofobia, consulenza giuridica, iniziative socio-economiche, proposte per la vita politica cittadina, assistenza per consentire l’effettivo esercizio delle forme di partecipazione e per l’accesso.
Secondo l’Assessore comunale Giusto Catania, “non si tratta di un organo semplicemente consultivo, ma ha l’ambizione di essere un’Istituzione che contribuisce alle scelte di governo della città. La Consulta delle culture può rappresentare la quarta gamba del sistema di governo cittadino, dopo la Giunta, il Consiglio Comunale e le Circoscrizioni”.
Il sogno del Sindaco e della sua Giunta è quello che la Palermo multietnica e pluralista possa diventare la capitale della cultura europea.
Pietro Scaglione
Milena Santerini, deputata di Scelta Civica, ha depositato alla Camera un progetto di riforma della legge sulla cittadinanza insieme al collega Mario Marazziti, sottoscritto anche da alcuni parlamentari del Pd. Docente di Pedagogia all’Università Cattolica di Milano e membro della Comunità di Sant’Egidio, ha a cuore i problemi della scuola, della famiglia, della coesione sociale.
- Perché in Italia è urgente una riforma della legge sulla cittadinanza?
Perché quella attuale è anacronistica, nega la cittadinanza a giovani nati e cresciuti nel nostro Paese, italiani di fatto. Bambini e ragazzi che mangiano, studiano, tifano le squadre di calcio e ascoltano la musica esattamente come i loro compagni di classe “italiani da più generazioni”.
Fanno parte del nostro Paese e ne condividono la cultura, ma siamo ormai alla terza generazione, senza avere ancora sciolto i nodi delle seconde.
Va adeguata la legge a una realtà, quella dei “nuovi italiani”, che non è un’emergenza o un fatto estemporaneo, ma uno dei fenomeni epocali tipici delle società occidentali.
- Cosa prevede la vostra proposta di riforma?
Il superamento dello ius sanguinis, il diritto di sangue, a favore di uno ius soli temperato. Potrebbe così ottenere la cittadinanza chi nasce in Italia, con almeno uno dei genitori già regolarmente soggiornante nel nostro Paese da 5 anni.
Introdurremmo anche lo ius culturae: cittadinanza su richiesta dei genitori per il figlio nato all’estero ma che ha concluso con successo un ciclo di studi (elementari, medie o superiori). Per gli adulti, in linea con gli altri Paesi europei, il criterio per l’ottenimento della cittadinanza diventerebbe l’aver soggiornato legalmente da almeno 5 anni, anziché i 10 attuali.
- Perché sottolineate l’importanza dello ius culturae?
Perché aver studiato con esito positivo testimonia un percorso progettuale di condivisione della cultura del Paese: è questo che rende cittadini. Nella nostra proposta, privilegiamo l’aspetto di genuine link, il legame effettivo, i fatti: permanenza, adesione e condivisione.
- Come è nato il suo impegno per questa riforma?
Da un lato, dall’impegno ventennale della Comunità di Sant’Egidio per questi temi. Dall’altro, dal mio insegnamento in Pedagogia alla Cattolica, dove mi occupo non solo di integrazione sociale degli immigrati, ma anche delle problematiche dello scambio tra culture.
C’è chi obietta che la riforma annacquerebbe la nostra identità.
Per quanto riguarda gli adulti, la vera e forte identità di un cittadino non è messa in discussione dal confronto con altri modi di credere, pensare, vestirsi e mangiare. Ma qui stiamo parlando di bambini che crescono immersi nella cultura italiana e che semmai devono porsi il problema di come non perdere quella di origine. In ambedue i casi, l’approccio interculturale dimostra che gli individui della globalizzazione sono comunque già tutti multiculturali e che il confronto tra modi di pensare diversi è la condizione per uno sviluppo equilibrato della personalità.
- Cosa risponde a chi è spaventato da un’ipotetica invasione di donne partorienti disposte a tutto pur di ottenere la cittadinanza per i figli?
È una visione esasperata dei problemi, collega impropriamente l’emergenza degli arrivi degli immigrati, di persone disperate, con la problematica del riconoscimento della cittadinanza di chi è nato e cresciuto qui: è una cosa diversissima. In ogni caso, la nostra proposta non prevede questa possibilità “last minute”.
- E a chi raccoglie firme contro lo ius soli legando il dibattito all’omicidio di Milano?
Anche qui, si collegano due cose completamente diverse. Mai un evento folle, che crea tanto dolore, va strumentalizzato politicamente! È un esempio degli errori fatti finora nel trattare le politiche dell’immigrazione, che hanno privilegiato i toni polemici e la paura dell’“invasione” rispetto alla vera e centrale domanda di integrazione e stabilizzazione degli immigrati del nostro Paese.
Accanto all’Italia dei nuovi italiani “già di fatto”, c’è l’Italia degli insulti al ministro Kyenge…
La sfida della convivenza passa dal valorizzare l’integrazione di fatto già avvenuta nel lavoro, nella scuola e nella vita sociale. Ma anche dal combattere con più decisione i fenomeni di intolleranza: siamo stati troppo indulgenti verso queste forme mascherate di razzismo e si è lasciato che degenerassero anche in atti violenti, come è recentemente successo contro i rom a Milano. È inaccettabile, per questo sto lavorando a proposte di educazione alla cittadinanza che coinvolgano la scuola e l’associazionismo.
Stefano Pasta
Storie: Jenny, Monnalisa e le altre...
Paradossi della nostra legge sulla cittadinanza: essere nata in Italia, averci vissuto per tutta la vita, ma dover ancora spiegare, con accento milanese, perché vuoi essere italiana. “Sì, se guardo i documenti, sono straniera, immigrata. Ma nella mia vita sono migrata solo una volta: quando, la mia famiglia si è trasferita da Cormano a Cornaredo… Ben 16 chilometri!”. Jenny, 16 anni, è nata all’ospedale Mangiagalli di Milano da genitori filippini: “Frequento il liceo scientifico, tifo il Milan di Balotelli, ascolto i Modà”. Secondo la legge italiana, Jenny è straniera, anche se nelle Filippine non ci ha mai messo piede. Anche suo cugino Mark, 23 anni, è uno “straniero in patria”; quando la sua famiglia è venuta in Italia, aveva già 4 anni e quindi, con la maggiore età, non ha potuto chiedere la cittadinanza. Racconta: “In quarta superiore, gita di classe a Praga: non riuscii ad andare a causa dei documenti. Capii che, nonostante mi sentissi italiano, ero straniero. Per un adolescente non è sempre facile reggere questa verità”.
Per Monnalisa, 19 anni, il paradosso diventa doppio. Lei si chiama pure come il ritratto italiano più famoso al mondo: “Il nome lo scelse mio padre, che amava una canzone di Mango allora molto in voga, Come Monnalisa”. Con lei, l’accento diventa toscano: “Mi sento italiana? Certo, questa domanda mi fa quasi ridere! Senza rinnegare nulla delle mie origini albanesi, sono qui da una vita”. A lei, nata in provincia di Pisa, la cittadinanza è appena stata rifiutata per “insussistenza dei presupposti”: nei primi 3 anni di vita non risulta iscritta all’anagrafe, per l’errore di un impiegato. Anche a Cristian, nato a Roma 18 anni fa da un uomo italiano che non lo ha riconosciuto e da una madre colombiana, hanno rifiutato la cittadinanza. Il motivo? È incapace di intendere e volere. Perché è affetto dalla sindrome di Down. E quindi, secondo lo Stato, non può giurare nella cerimonia di conferimento. Il caso dei ragazzi down evidenzia i danni provocati da un’altra stortura dell’attuale legge: la cittadinanza dei diciottenni nati e cresciuti in Italia non è un diritto, ma una concessione dello Stato. Che infatti, come in questo caso, può scegliere di non concederla.
In Italia, succede anche che giovani nati e cresciuti in Italia non riescano a rinnovare i documenti e così vengano espulsi o rinchiusi in un Cie (Centro di identificazione e di espulsione), come racconta il documentario “Sta per piovere” ora nelle sale. O come è successo a Karim, 24 anni, anche lui con un forte accento milanese, in Italia dal 1996: proprio ora che la sua fidanzata ha scoperto di aspettare un bambino, è rinchiuso nel Cie di Ponte Galeria a Roma. Diversa la storia di Eduardo, 31 anni. Lui la cittadinanza italiana ce l’ha. Non parla italiano, non è mai stato nel nostro Paese e non sa il nome del Presidente della Repubblica. Ma spiega: “Nel 1907, la mia bisnonna partì dalla provincia di Treviso per emigrare in Argentina. Io sono nato e cresciuto a Buenos Aires”.
Stefano Pasta