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venerdì 20 settembre 2024
 
 

Don Tonino Bello, fratello vescovo

19/04/2013  Sono passati 20 anni dalla sua scomparsa, ma il ricordo in chi lo ha conosciuto è più vivo e attuale che mai. Perché il vescovo di Molfetta è stato un pastore attento a tutto e a tutti.

Un sabato qualunque, due del pomeriggio. Il cimitero di Alessano è pressoché deserto. È aprile ma il sole sembra quello di luglio. Una madre col figlioletto sgattaiola veloce a visitare una persona cara. Fa un rapido scarto a destra: si ferma davanti al piccolo anfiteatro circolare e alla lastra di pietra. Una breve preghiera. Un segno di croce, e va. Pochi minuti e un paio di ragazze s’accostano. Fissano a lungo la pietra, il loro sguardo si sofferma su alcune brevi frasi – alcune fra le più famose delle sue espressioni – incise su rocce poste intorno alla tomba: «Ama la gente, i poveri soprattutto. E Gesù Cristo»; «In piedi, costruttori di pace»; «Ascoltino gli ultimi e si rallegrino». Un breve momento di silenzio e ritornano.

È uno sfilare continuo su quella pietra scarna, adornata soltanto da una piccola croce epoche parole: «Don Tonino Bello, terziario francescano, vescovo di Molfetta-Ruvo-Terlizzi-Giovinazzo». Infine, le date: nato ad «Alessano,18 marzo 1935», nel Salento, nel più profondo e povero Sud della Puglia; morto a«Molfetta, 20 aprile 1993», la città dov’è stato vescovo per quasi 13 anni e dove al funerale un oceano di 60 mila persone ha invaso l’intero porto.

Lo stanno facendo santo, don Tonino. La causa di beatificazione, avviata nel 2008 dall’attuale vescovo di Molfetta, monsignor Luigi Martella, si avvia alla conclusione della prima fase, quella diocesana. Poi la monumentale documentazione andrà a Roma, in Vaticano. Per la gente santo lo è già. Tanto a Molfetta quanto ad Alessano, tanto a Ugento, dove fu vicerettore del seminario, quanto a Tricase, dove fu parroco. Sono passati 20 anni,ma ogni luogo parla di lui: gli edifici ecclesiastici ma anche gli uffici pubblici, le piazze e le vie. Una foto oppure una dedicazione,una targa oppure una delle sue frasi celebri. Don Tonino ovunque. Mai monsignor Bello, tanto meno Antonio. Sempre e solo don Tonino, il «fratello vescovo povero con i poveri», quello col pastorale e la croce di legno (di ulivo, però, simbolo della sua terra), quello con l’appartamento episcopale invaso dai senzatetto e dai migranti stranieri, quello che girava per le strade del porto e della vecchia Molfetta sedendosi accanto ai poveri e agli ubriaconi, quello che aveva la porta sempre aperta, anche alla prostituta che gli aveva bussato alle quattro di mattina affamata e fradicia di pioggia. Ma anche quello che parlava di «pace, giustizia e salvaguardia del Creato come Trinità terrestre» e che tuonava contro chi voleva“militarizzare” la sua terra, la Puglia, mettendovi le basi degli F16, negli anni Ottanta.

Da presidente di Pax Christi, nel dicembre 1992, già gravemente malato, sfidò i cecchini di Sarajevo durante la sanguinosa guerradi Bosnia con Beati i costruttori di pace. Insieme a monsignor Bettazzi, a don Albino Bizzotto e al piccolo popolo di pacifisti di ogni provenienza, la "Marcia dei 500" violò l’assedio della capitale bosniaca, ma senza sfidare nessuno: convinsero i soldati a farli passare,consolarono le vittime di entrambe le parti,dispensarono aiuti tanto agli abitanti di Sarajevo che ai serbi. Don Tonino non accetterrebbe che si scrivesse che era "alla testa del corteo". Diciamo che stava in mezzo a loro. Santo per tutto questo? Certamente no, c’è molto e molto altro. Sei pagine di un giornale non possono raccontare la capacità profetica e l’odore di santità di don Tonino. Forse, possono darne un assaggio. Il 18 marzo 1993, a meno di un mese dalla morte, don Tonino compiva 58 anni. Era ormai costretto a letto, e si era fatto portare nella camera la sua icona preferita di Maria, la stessa che in precedenza teneva nella cappellina del vescovado dove aveva posto la scrivania, quando stava bene: a tarda sera si richiudeva lì a lavorare e a scrivere. La sera di quell’ultimo compleanno il cortile dell’episcopio si era improvvisamente riempito di giovani. Centinaia, con le chitarre, per fargli gli auguri cantandogli Freedom, libertà, e «Nulla ti turbi, nulla ti spaventi, solo Dio basta».

C’è un video che testimonia quel momento,lo si può vedere in Internet: «Avrei voluto farvi salire e abbracciare a uno a uno», disse a quei giovani, «ma non è possibile perché siete tantissimi. Chissà», aggiunse, «se il Signore mi darà la forza e la salute di mettermi non avanti a voi, come capofila, e neppure dietro di voi, ma in mezzo a voi. Non abbiate mai paura di essere carichi di utopie, di idealità purissime, soprattutto quelle che si rifanno ai grandi temi della pace, della giustizia, della solidarietà». Quasi un testamento spirituale.«L’augurio che mi fate ritorni su di voi,per la vostra vita, i vostri sogni, il vostro futuro.Vi voglio bene», aveva semplicemente concluso. Parole e gesti che ricordano così da vicino lo stile di papa Francesco. Che ne è stato di quelle centinaia di giovani? Quale segno portano dentro di sé di don Tonino? Tra Molfetta e Alessano ne abbiamo incontrati tanti.

«Tutto quello che sono lo devo a lui», ci siamo sentiti ripetere in continuazione. Dai "ragazzi di don Tonino" è nata la Fondazione don Tonino Bello, presieduta da Giancarlo Piccinni; l’editrice La Meridiana, guidata da Elvira Zaccagnino; uno di quei giovani, Guglielmo Minervini, è stato sindaco di Molfetta e oggi è assessore regionale in Puglia; Maria Mazzone, presidente della cooperativa sociale Adelphia gli dedica ancora oggi «la testimonianza delle nostre fatiche e dei nostri errori» nell’assistere con 180 operatori le comunità di disabili gravi, malati mentali e giovani in condizione di disagio sociale; Mimmo Pisani,vicedirettore della Caritas di Molfetta e responsabile della Casa d’accoglienza Don Tonino Bello, gli chiede aiuto «quando non ce la faccio più», racconta. «D’altra parte, poco prima di morire mi disse: "Ti raccomando il centro di solidarietà e i poveri". Se un vescovo ti dice una cosa del genere, beh, gli dedichi la vita».

«L’eredità di don Tonino è pesante», sottolinea monsignor Luigi Martella, attuale vescovo di Molfetta. «Portarla mi è meno difficile perché l’ho conosciuto, e l’ho vissuto come un fratello maggiore, un punto di riferimento. Se il Signore mi ha voluto qui, dove lui prima di me è stato pastore, mi aiuterà anche a esserne degno».

Don Gigi Ciardo, parroco da 36 anni di Alessano, sottolinea che, insieme ai genitori, don Tonino è la persona più importante della sua vita: «Sono entrato in seminario quandoera vicerettore», spiega. «Con lui ho imparato a leggere, mi ha formato come uomo ecome prete, mi ha persino insegnato a nuotare. Portava noi seminaristi davanti a un albero e ci incantava parlando della bellezza del Creato. Oppure si usciva la sera in barca, suonava la fisarmonica e ci invitava a contemplare la luna che declinava sul mare. Quello che aveva di speciale è che ti faceva sentire unico e importante: quando aveva davanti una persona non esisteva nient’altro».
Don Gigi ricorda che quando stava per trasferirsia Molfetta come vescovo, la sera prima andò a trovarlo. Si commosse e disse: «Prestovi dimenticherete di me». «Così gli ho telefonato tutti i giorni, per un anno intero», conclude don Gigi. «Da lui abbiamo imparato che il credente è l’uomo dalle mani aperte, perché non trattiene mai nulla e nessuno; è l’uomo dalle mani protese, perché fa sempre il primo passo; è l’uomo dalle mani giunte, nella preghiera. Ci ha insegnato l’accoglienza: davantia una persona non si discute, la si accoglie».

«Quello che lo ha reso famoso da vescovo, noi lo avevamo già vissuto quand’era tra noi», aggiunge Giancarlo Piccinni.Viene eletto pastore di Molfetta nel 1982, dopo aver rinunciato due volte. Tre anni dopo diventerà presidente nazionale di Pax Christi, e saranno gli anni in cui si parlerà molto di lui in tutta Italia, per l’impegno infaticabile a favore della pace, ma anche per le posizioni "senza se e senza ma" che assume. L’episcopio di Molfetta diviene la sua nuova casa. Una casa dove, a chi bussa, apre il vescovo in persona. E bussano in tanti. Uno stile pastorale diverso, pioniere nel tentare di mettere in pratica quel concilio Vaticano II a cui aveva partecipato, come assistente di monsignor Ruotolo e che immediatamente aveva cercato di divulgare con corsi e lezioni in diocesi.

Interpreta uno stile di Chiesa che, con la Bibbia in mano, legge la Parola di Dio sfogliando anche il giornale.«È la Chiesa "della stola e del grembiule",secondo una felice espressione di don Tonino», spiega don Mimmo Amato, vicario generaledi Molfetta e vicepostulatore della causa di beatificazione. «Diceva che sono l’unico paravento della Chiesa, il diritto e il rovescio dello stesso unico vestito».
 
Gli immigrati sono già "un problema", per tanta gente. E don Tonino allora invita lo straniero a bussare alla sua porta. «Perdonaci», scrisse nella Lettera al fratello marocchino, «se non abbiamo saputo levare coraggiosamente la voce per forzare la mano dei nostri legislatori. Ci manca ancora l’audacia di gridare che le norme vigenti in Italia, a proposito di clandestini come te, hanno sapore poliziesco, non tutelano i più elementari diritti umani, e sono indegne di un popolo libero come il nostro. Perdonaci,fratello marocchino, se noi cristiani non ti diamo neppure l’ospitalità della soglia».

«Sarebbe sbagliato dare dei suoi gesti e delle sue parole un’interpretazione ideologica», conclude monsignor Vito Angiuli, vescovo di Ugento. «La chiave di tutto il suo operato è mettere in pratica il Vangelo sine glossa e sine modo, cioè senza aggiunte o menomazioni. Ma anche senza confini e senza misura».

Luciano Scalettari

 

 

L’alba di don Tonino Bello è il 18 marzo del 1935 ad Alessano, nel Salento.
Il tramonto è il 20 aprile del 1993 a Molfetta, intorno alle tre del pomeriggio. Solo 58 anni. Troppo pochi a contarli. Densi a raccontarli.

È il primo di tre fratelli. Resterà presto orfano di padre (a 7 anni) e primogenito, con mamma Maria e i fratelli Marcello e Trifone. Una famiglia povera ma dignitosa. Unita e tenuta insieme dalla semplicità di una vita serena ma non rassegnata al destino che, in tempi di guerra, l’ha privata del sostegno economico del padre. Famiglia salentina: nobile nell’animo e le mani sporche di chi per far mangiare i figli, la mattina presto va a raccogliere le verdure nei campi e poi ricama e aiuta in casa di altri. Come faceva mamma Maria.

A dieci anni Tonino entra nel seminario di Ugento. Era intelligente e portato agli studi. Il parroco del paese anche per questo consigliò alla mamma per lui il seminario. A quei tempi i poveri facevano così per far studiare i figli. Dopo gli studi liceali nel seminario regionale di Molfetta, l’8 dicembre del 1950 fu ordinato sacerdote nella chiesa di Ales­sano.

Continuarono a farlo studiare: nel 1958 fu inviato a Bologna per frequentare i corsi di teologia al seminario di studi sociali dell’Onarmo. Andò nella Bologna del cardinal Lercaro, padre conciliare. La ‘Bologna rossa’ dove l’impegno della Chiesa agiva su due fronti: la spiritualità promossa e ricercata per contrastare ‘i comunisti atei’ e la scelta del confronto con tutti, anche con loro, nel momento in cui la città vedeva crescere nelle sue periferie potenziali aree di sviluppo territoriale ed economico ma anche nuove questioni sociali. La Chiesa che non si chiude in difesa ma con dignità e fermezza segna il suo compito, la sua missione diversa ricercando per il bene del suo popolo il confronto anche con chi non crede. Tra i suoi insegnanti anche mons. Bettazzi.

Sarebbe rimasto volentieri a Bologna, don Tonino, ma una volta laureato la sua diocesi lo rivolle. L’investimento su di lui andava capitalizzato nella terra di origine: doveva essere il direttore del Seminario di Ugento, doveva formare ed educare le giovani vocazioni.  Lo mandarono anche al Concilio vaticano II, nel 1963, ad accompagnare il ve­scovo Ruotolo. Durante la prima sessione del Concilio faceva la spola: Ro­ma e seminario di Ugento dove era maestro dei seminaristi. Nel frattempo, “per non perdere tempo quando stava a Roma” – la raccontava così – si iscrisse all’Uni­versità Lateranense. Si laurea discutendo una tesi su “Congressi eucaristici e loro significato teologico e pastorale”. Tesi che capitalizzerà da vescovo.

Fa carriera. È nominato monsignore, all’età di 28 anni. Un titolo. Niente di più. Il curriculum recita: prefetto e poi vicerettore nel seminario vescovile di Ugento, assistente diocesano dell’Azione cattolica, rettore del seminario di Ugento, direttore dell’Ufficio pastorale diocesano, vicario economo nella parrocchia del S. Cuore di Ugento, parroco della chiesa della Natività di Maria Vergine a Tricase.

E fin qui la sua vita nel Salento. Fatta di incarichi e compiti portati a termine nell’obbedienza ai superiori, ma condendo il tutto con i suoi talenti. Gli sfrattati ospitati nel seminario prima ancora di chiedere il permesso al suo vescovo Mincuzzi di poterlo fare; gli incontri culturali, la squadra di pallavolo allenata e fatta arrivare ai campionati nazionali, le nuotate in mare, la Caritas nella parrocchia e il coro seguito di persona, il giornale fatto con i seminaristi e le partite a pallone. Il porta a porta e il faccia a faccia: il rosario e il breviario. Un prete formatosi prima del Concilio e che esercita il suo ministero sacerdotale nell’immediato dopo Concilio. In quel già e non ancora tutto da costruire, sperimentare, osare.

Nel 1982 accetta, dopo aver rifiutato per due volte, la nomina a vescovo. È morta la madre a cui era legato. La perdita, il lutto, il distacco lo vive così: come un segno per liberare le vele. È consacrato vescovo il 30 ottobre. La diocesi è quella di Molfetta, Giovinazzo, Terlizzi e Ruvo. Diventa vescovo restando in Puglia. Dal 21 novembre l’episcopio di Molfetta è la sua nuova casa. Una casa dove, a chi bussa, apre il vescovo in persona. E bussano in tanti. Gli sfrattati, ai quali mette a disposizione le stanze; i poveri, i giovani, i preti. I credenti e gli atei. Una parola e una frisa. Uno stile pastorale diverso. Conciliare. La chiesa che, con la Bibbia in mano, legge la Parola sfogliando anche il giornale. La Chiesa cioè che impasta il vangelo con la vita delle persone. La Chiesa del grembiule e dei paramenti sacri.

Il vescovo che scende dall’Episcopio per andare a trovare la gente: gli operai delle acciaierie di Giovinazzo, gli immigrati nelle campagne di Ruvo per portarli nei locali della parrocchia; i tossicodipendenti nella comunità che, facendo debiti e sperando nella provvidenza che arriva ma solo ai calci di rigore, ha voluto come impegno e promessa alle famiglie che gli avevano chiesto aiuto.

Scende per andare a trovare i giovani: ogni martedì e mercoledì. Appuntamento fisso nelle quattro città della diocesi. Scende per  andare dai preti anziani o ammalati a far loro di persona gli auguri di compleanno o onomastico. E invita a bussare alla sua porta il marocchino. La lettera al fratello marocchino è un documento inteso di dialogo tra culture.

Nel novembre del 1985 è eletto presidente nazionale di Pax Chri­sti, succedendo a monsignor Luigi Bettazzi. Il discepolo diventa maestro. Un impegno che lo apre a scenari e sfide che, al suo solito modo, rilancia e rinnova. A partire dalla Puglia. A chi la voleva arco di guerra, la prospetta come arca di pace portando l’intero episcopato pugliese alla firma di ben due documenti: la terra  è di Dio e degli uomini di buona volontà. Non è a disposizione dei mercanti di guerra. Lo grida forte. Lo gridano forte i vescovi collegialmente. Cade il muro di Berlino. La guerra e la pace si giocano su altri scenari: il Golfo prima. La Bosnia dopo. Nel mezzo gli sbarchi degli albanesi. Siamo negli anni ‘90.

Dal ’91, con la guerra del Golfo, all’aprile del ‘93 le partite che si giocano sugli scenari internazionali e nazionali sono l’anticipo di ciò che ancora oggi è. Il ministro Scotti nell’agosto del ‘92, ebbe ad auspicare “A peste, fame et Bello libera nos, Domine”. Perché negli scenari internazionali che incalzano, lui da vescovo e Presidente di Pax Cristi incalzava a scelte diverse: umane ancor prima che cristiane.

Don Tonino gioca la sua guerra personale con il cancro che non gli concede tempo, prendendosi il tempo per lasciare segni ancora una volta profetici: in 500 a Sarajevo a dicembre del ‘92. Una follia. Un sogno. Un’impresa. Un segno di un modo diverso di agire la pace nei conflitti “moderni”. Sceglie di morire da vescovo nella sua diocesi e trasforma il letto della sua agonia in una cattedra di speranza. Fino alla fine. Chiede di essere sepolto ad Alessano. E lì, respirando la brezza che viene dal mare non molto lontano, in molti gli fanno visita. Ogni anno di più.

Il 27 novembre del 2007,  la Congregazione per le cause dei san­ti dà il suo nulla osta per l’apertura del Processo della Causa di beatificazione e canonizzazione di don Tonino Bello, che entro pochi mesi concluderà la prima fase, quella diocesana a Molfetta.

In oltre 50mila parteciparono ai suoi funerali. Era un pomeriggio di Aprile. Sul porto di Molfetta un tiepido raggio di sole e la brezza del mare illuminavano il Vangelo sfogliandone le pagine. Molti anni dopo la stessa cosa accadde al funerale di Giovanni Paolo II. Forse il sole e il vento fanno così con quelli che riconoscono santi.

Elvira Zaccagnino

 

Don Tonino pacifista, nonviolento, poeta. Ma anche riformatore sociale. Del Sud. Anzi, l’ultimo grande riformatore sociale del mezzogiorno. Ha infranto le regole del buon costume episcopale, frantumato le sbarre invisibili (chi si ricorda di Pasolini?) dell’esclusione sociale, sovvertito l’ordine dei valori dominanti.

Come tutti i grandi riformatori ha misurato la fatica del cambiamento prima sui problemi concreti, strutturali, quelli che si toccano. La casa, la disoccupazione, il disagio, le criminalità, lo sviluppo. La polvere e la strada. E poi le cose che non si toccano, la culture, le relazioni. Lo scetticismo. Le coscienze.

È stato poco nei ranghi, specie da vescovo. Scende in piazza con gli operai, lotta con i marittimi, accoglie sfrattati e prostitute in episcopio, solidarizza con i profughi albanesi, s’indebita (se stesso, non la diocesi) fino all’ultimo capello per fondare comunità d’accoglienza, promuove petizioni per lo sviluppo civile e non militare del suo territorio, gira di notte nelle zone d’ombra della città raccogliendo ubriachi, matti e sbandati, litiga con gli amministratori, denuncia l’impianto clientelare delle politiche sociali, dinanzi all’omicidio del sindaco mette sul banco degli imputati le responsabilità collettive della città piuttosto che quelle soggettive del “mostro”. Un rompiscatole. Un vero rompiscatole.

Non semplicemente un abile creatore di rovesci e paradossi, con il gusto di rompere le uova delle consuetudini nel paniere delle contraddizioni, ma un’intelligenza appassionata che s’infila lucida nel cuore dei problemi.  Il cambiamento del meridione passa per la testa dei meridionali. L’espressione  “rompere gli ormeggi”, che ricorre in una delle sua liriche più belle, evoca un movimento molto simile a quello del distacco, del viaggio, insomma dell’esodo.

Dalla terra della soggezione e della dipendenza a quella dell’autonomia e della “creatività”. Pensarsi in grado di generare futuro, di tracciare con le proprie gambe una strada inedita e originale. Rielaborare con audacia la propria storia e la propria identità senza dissimularle sotto altre spoglie. Osservare il mondo a partire dal proprio punto di osservazione e non immaginando di essere altrove.

Vedersi da Sud non da Nord, si direbbe oggi con le categorie del pensiero meridiano di Franco Cassano. Un Sud dalla schiena dritta e non curva, con la testa in avanti e non rivolta all’indietro. Certo Don Tonino vescovo non ha più di fronte il Sud contadino e immobile di Dorso, Scotellaro e Salvemini. La sua Puglia è un mezzogiorno sospeso tra passato e futuro, tra immobilismi e dinamismi, tra conservazione e innovazione, tra inerzie e slanci. Inoltre, nel tempo di cerniera che attraversa, la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90, il potere non ha più la forma beffarda, sfuggente e intangibile descritta da Sciascia ma al contrario appare precario e fragile.

Eppure molti nodi del Sud non si sono ancora sciolti e don Tonino sperimenta sulla carne la tensione tra la debolezza e le potenzialità. Essere vescovo al Sud è difficile. I problemi sono più complessi, profondi, aggrovigliati. I tempi sono lenti, i passaggi lunghi e contorti. La normalità confina strettamente con l’eccezionalità e, talvolta, invade l’eroismo. Così, se vuoi incidere, devi dotarti di pazienza storica, sguardo esteso e simboli efficaci. Don Tonino lo sa. Di quella tradizione di cui era impastato, non è difficile distinguere in lui molte tracce comuni. Utopista, tormentato, irrequieto, certamente vulnerabile, perfino contraddittorio. È il modo specifico con cui si regisce alla propria condizione di disadattamento, al sentirsi profondamente incarnato in una terra, amarla nelle viscere, portarsela nel sangue ma nel contempo soffrire il perimetro ristretto dei suoi limiti, avvertire il disagio delle sue insufficienze.

Ancora oggi Don Tonino Bello è difficile da collocare. Troppe radici salentine sfuggono agli stereotipi: il fiero amore verso la propria comunità, la gentile disposizione all’accoglienza, la positiva e sensibile visione delle relazioni ma anche dei conflitti.

Non solo la Cinquecento senza autista e l’episcopio senza anticamera, ma anche Gramsci, Pasolini, Bonhoeffer insieme a Moltmann e a Buber. Daltronde è la sorte toccata anche alla millenaristica tradizione del Mezzogiorno, da Gioacchino da Fiore a Ignazio Silone, in cui l’atavica sete di giustizia non ha mai smesso di spingere la coscienza, spesso solitaria, oltre le strutture incompiute delle istituzioni e della politica.

Forse ciò che don Tonino aggiunge a questa nobile tradizione è proprio la sua vicenda di vescovo, cioè il tentativo di conferire alla coscienza una natura collettiva, una dimensione comunitaria, di sradicarla dalla narcisistica consolazione del proprio destino per trasformarla nel polmone che soffia sul bisogno di cambiamento del suo popolo.

La tensione della coscienza liberatrice è stata da don Tonino ricondotta dentro le istituzioni non come inatteso ospite, ma come elemento originario e costitutivo, da cui la stessa struttura trae motivo di esistenza. Con naturalezza ha rimesso la struttura al servizio della coscienza. Anche don Tonino ha incessantemente ribadito, per dirla con Silone, che "Dio ha creato le anime non le istituzioni" ma non ha rinunciato alla sfida.

Non si è dato per sconfitto. Perfino la prova ultima della malattia, nella tensione profondissima del dolore, è stata trasformata in un’eccezionale occasione di grazia cui l’intero popolo ha preso parte. Da un travagliato smarrimento, don Tonino scorge nella sofferenza il tempo vitale per riaffermare in modo autentico il senso della speranza. Con un’ansia intima di futuro e una fresca fiducia nella possibilità di riconciliarlo ancora con il presente.

Anche per questa ragione la voce di Don Tonino sarà apparsa così dissonante rispetto al coro. Eppure a un presente riconciliato con il futuro, la storia di oggi ancora ci spinge.

Guglielmo Minervini
(dal volume “Sud a caro prezzo”, La Meridiana)

Sono trascorsi 20 anni dalla scomparsa di monsignor Antonio Bello, per tutti “don Tonino”, vescovo di Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi e Presidente di Pax Christi Italia dal 1985 al 1993, anno della sua morte.

Monsignor Giovanni Giudici
, vescovo di Pavia e presidente di Pax Christi Italia ne sottolinea l'attualità: «Lo ricordo una sera invitato da noi in Lombardia a parlare del suo libro La finestra della speranza. Lo ricordo appassionato nella difesa della dignità di ogni persona e capace di pagare proprio lui stesso per questa passione mettendo tempo e energie. Ricordo di lui la capacità di esprimere in una maniera molto immediata e nello stesso tempo poetica i contenuti del suo messaggio. Una figura realmente maiuscola che negli anni è diventata ancor di più significativa perché i suoi scritti non perdono il vigore dei tempi in cui li scrisse e le sue impostazioni di proposta dei temi della pace, certamente scontando alcuni aspetti del tempo in cui li espresse, hanno una tale profondità che rimangono veri anche a 20 anni di distanza».

Sergio Paronetto, vice presidente di Pax Christi Italia: «Vorrei concentrarmi brevemente su un ricordo più intimo. Ciò che di lui leggo e medito mi arriva sempre col profumo della novità, col sapore della bontà, con l'odore del suo mare, con lo sguardo di tanti testimoni di pace a partire da Giovanni XXIII, di cui stiamo celebrando il 50° della “Pacem in terris”. Sento di vivere con lui un'amicizia spirituale che mi fa crescere, respirare ed espandere. Lo “vedo” operare dentro l'azione per il disarmo, il bene comune, la costruzione della famiglia umana, la vita ecclesiale, Pax Christi. Per don Tonino “la nonviolenza è una cultura ancora debole” ma “la pace è un'arte che si impara”: un itinerario formativo permanente che riguarda la ricerca della felicità attraverso la “convivialità delle differenze” che affonda le sue radici nel mistero trinitario: uguaglianza, differenza, relazione. Per questo siamo tutti uguali, tutti differenti, tutti in relazione. E ognuno può fare qualcosa».

«Questo forse ci manca: camminare insieme!», continua Sergio Paronetto «Risvegliare la fresca fiducia nella possibilità di cambiare; sentire la pace non solo come dovere ma come piacere di vivere assieme come membri della famiglia umana; praticarla non solo come lotta tenace, a volte troppo allarmata, ma come movimento di amicizia liberatrice, come impegno alimentato dalla sapienza del sorriso. Ce lo insegna il disegno di un bambino di Molfetta che lo immaginava in piedi su una barca a vela, in una mano la croce e nell’altra la fisarmonica. Quasi l'icona della sua passione nell’annunciare Cristo “nostra pace”, pronto a “mutare il lamento in danza” (Sal 29. Splendida la sua preghiera del 1982 (“La lampara”) da cui emerge una vita di fede (“la forza di osare di più, la gioia di prendere il largo”), di speranza (“spalancare la finestra del futuro, progettando insieme”) e di carità (“per chi ha fame e non ha pane e per chi ha pane e non ha fame”) che potrebbe costituire il manifesto sia del nostro itinerario associativo che del cammino ecclesiale».

Sergio Paronetto sottolinea inoltre le analogie con papa Francesco: «Sento molto stimolante la coincidenza tra l'elezione di papa Francesco e la memoria di don Tonino. Tra i due sono molte le vicinanze tematiche: una “Chiesa del grembiule” per la lavanda dei piedi; una comunità accogliente ma pronta a “uscire da sè”; la custodia del creato e della bellezza; la pace come dono e impegno; la spiritualità della gioia; la sobrietà e la gratuità; la tenerezza e la profezia. Don Tonino ci manca. Ma la sua assenza non può bruciare se alimentiamo il suo fuoco, il roveto ardente della pace. Sono convinto che non sia solo in mezzo a noi, ma davanti. E che ci stia venendo incontro incontro per osare assieme. Compagno di strada se ci mettiamo in marcia. Beati non perché pensiamo di essere arrivati ma perché stiamo partendo e camminando».

Mosaico di pace, l'organo di stampa di Pax Christi,  dedica il numero di maggio ai venti anni dalla scomparsa di don Tonino. Scrive sul suo sito web: «Venti di don Tonino Bello. Un numero speciale. Interamente dedicato a don Tonino Bello, per il ventesimo anniversario della sua morte. Venti anni e venti nuovi. Quelli di don Tonino Bello dalla sua Pasqua e quelli che noi auspichiamo con questo numero speciale che dedichiamo per intero a colui che ebbe l’intuizione di queste pagine come uno strumento di pace».

Nato dalla generosità di chi l'ha conosciuto personalmente o attraverso la sua opera, "L'anima attesa" rievoca la figura del sacerdote e sottolinea l'attualità del suo messaggio.

È una storia bellissima quella di L'anima attesa, come se il film contenesse al proprio interno tante piccole-grandi storie. Miracoli di don Tonino Bello, l'uomo e il prete che ha ispirato il film e tutta l'avventura che ne ha permesso la realizzazione.

Andiamo con ordine. Pax Christi, il movimento pacifista di cui don Tonino è stato presidente dal 1985 al 1993, e Mosaico di pace, la rivista fondata dal vescovo di Molfetta, hanno lanciato la campagna "Adotta un fotogramma per don Tonino": l'idea era di coinvolgere chi lo aveva conosciuto personalmente o attraverso il suo messaggio per raccogliere, ciascuno secondo le proprie possibilità, i fondi necessari per girare un film sulla sua figura e la sua predicazione. I nomi che vedrete scorrere nei titoli di coda sono quelli delle persone che hanno aderito a questo appello. E questo, a ben vedere, è un primo, piccolo-grande miracolo.

Il secondo è la realizzazione vera e propria del film, su un'idea di Carlo Bruni - che ne è anche il principale interprete - e per la regia di Edoardo Winspeare. Ora il film è pronto al suo debutto, che avverrà il 19 marzo al Bif&st di Bari. Con scelta intelligente, non punta direttamente sulla figura del sacerdote, ma parte da una vicenda attuale per scoprire il valore della sua testimonianza. Racconta infatti di un manager in crisi che accetta l'invito della sorella di recarsi nel Salento, ad Alessano, dove è sepolto don Tonino. Una serie di incontri durante il viaggio preparerà il suo animo a una conversione che lo metterà nella condizione di capire a fondo il senso della vita e dell'opera del sacerdote.

Eccco un assaggio del film.
 

La "conversione" del manager in crisi è un altro miracolo di don Tonino, simbolo dei grandi segni di trasformazione che ci ha lasciato in eredità. In particolare, L'anima attesa ha il merito di sottolineare due aspetti della sua missione. Il primo è la dura critica a un'economia impazzita e fuori controllo, che anziché produrre benessere genera fame, ingiustizie, guerre, la distruzione dell'ambiente naturale. Il secondo è un richiamo al significato più alto della politica, che deve mettersi al servizio della costruzione di un nuovo ordine di giustizia e di pace. Una politica, insomma, intesa «come maniera esigente di vivere l'impegno umano e cristiano al servizio degli altri».

Ciascuno è in grado di giudicare quanto queste analisi e questi progetti siano centrali nella società di oggi. Chissà se don Tonino potrà fare il miracolo di convertire anche il cuore dei signori dell'economia e dei politici...

Il film ha il patrocinio della presidenza del Consiglio della Regione Puglia ed il contributo di numerosi sponsor, pubblici e privati. Tra questi, il Comune di Giovinazzo, il Comune di Alezio e gli sponsor Banca Popolare Etica, Farmalabor, il Pastificio Attilio Mastromauro - Granoro Srl, il C.A.T. (Centro assistenza tecnica) – Confcommercio Bari e BAT, l’azienda Quarta Caffè. L’anima attesa non verrà proiettato nei circuiti tradizionali, ma sarà distribuito unitamente al numero di maggio della rivista Mosaico di Pace, numero speciale dedicato a don Tonino. Per informazioni si può chiamare il numero 080/39.53.507 oppure scrivere all’indirizzo abbonamenti@mosaicodipace.it.

Info: www.facebook.com/pages/lanima-attesa/219713311486740


Paolo Perazzolo

Il ricordo di don Tonino Bello è ancora scolpito nel cuore e nella mente dei tanti fedeli che lo hanno conosciuto e apprezzato. Un ricordo forte, sentito, immenso. Come ha sottolineato monsignor Luigi Martella, vescovo di Molfetta «don Tonino possedeva la capacità di illuminare, di suggerire orizzonti, di indicare strade sulle quali ciascuno potesse iscrivere la propria parabola umana e cristiana. Un ministero orientato verso una direzione chiara, la carità». La memoria resta qualcosa d’indelibile, soprattutto nella giornata di oggi in cui ricorre il  20° anniversario della morte del “Vescovo dei poveri”.


La città di Molfetta continua ad essere il simbolo di un evento che va oltre la pura reminiscenza, per poter raccontare e approfondire la spiritualità di don Tonino servo di Dio. Tante le manifestazioni e le iniziative condensate in una ‘tre giorni’ particolarmente intensa e significativa che coinvolge tantissima gente sempre legata e affezionata al loro Pastore. Ieri c’è stata la presentazione del progetto didattico realizzato da 24 scuole di ogni ordine e grado della diocesi incentrato sulla vita e sulle opere di monsignor Bello testimone della fede, una scelta tematica voluta dal vescovo Luigi Martella. “Nel rispetto delle finalità e della laicità della scuola – ha dichiarato il professor Luigi Sparapano referente del progetto -  la ricerca ha animato la riflessione culturale su una dimensione della vita dell’uomo di ogni tempo e di ogni spazio qual è la fede. Alunni e studenti hanno avuto la possibilità di conoscere la figura di don Tonino, di studiarne le biografia, il suo operato e il suo magistero”. Notevole il materiale digitale prodotto: 23 presentazioni in power point (centinaia di slides); 9 video, tra spot, documentari, cortometraggi e disegni in sequenza, per circa 3 ore di proiezione; 5 raccolte di poesie; 7 fumetti digitalizzati; 13 opere d'arte, tra quadri e installazioni; 1 libro d'artista, 3 e-book, con filmati, testi, immagini e tre canzoni originali, un audiolibro. 

Particolarmente interessante il convegno diocesano con la relazione di padre Bartolomeo Sorge, gesuita, già direttore de 'La Civiltà Cattolica' e di 'Aggiornamenti sociali', che si è soffermato sul profilo spirituale di don Tonino. Oggi altri due appuntamenti importanti. Il vescovo mons. Martella inaugurerà presso il Museo diocesano, la mostra sull’episcopato di mons. Bello. Saranno esposti alcuni oggetti personali di don Tonino, quali la mitria, la croce pettorale, altri oggetti personali, oltre a manoscritti, foto d’epoca. In serata la celebrazione eucaristica nella Cattedrale di Molfetta che sarà presieduta da mons. Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia e membro del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione.

Le celebrazioni  si concluderanno domani sera nella parrocchia Madonna della Pace, con un evento culturale di grande spessore. “Una croce con le ali. Don Tonino Bello: il segno e la profezia”. Si tratta di un’azione drammaturgica in dieci quadri scenici, a cura di Antonietta Cozzoli ed Emilia de Ceglia, che ha coinvolto tanti giovani provenienti dalle parrocchie della diocesi, con l’obiettivo di riproporre alcuni testi di don Tonino incentrati sulle tematiche più del suo apostolato: l'incontro con gli ultimi, l'impegno attivo contro la guerra e ogni forma di violenza, l'emergenza dello sbarco degli albanesi, la "marcia dei Cinquecento" a Sarajevo.

Nicola Lavacca

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