L'11 marzo 2011, in seguito al terremoto e allo tsunami che sconvolsero il Giappone, si verificò il disastro di Fukushima, con la fusione del nocciolo di tre reattori della centrale.
Venne rilasciata una tale radioattività da essere classificato di livello 7, il massimo di gravità per gli incidenti nucleari, raggiunto solo da Chernobyl.
Fu contaminato il suolo in un'area di 600 chilometri attorno alla centrale e il mare risultò radioattivo fino a cinquanta volte i limiti di sicurezza nelle settimane successive all'incidente.
Nel libro “Fukushima” (Marsilio editore), il giornalista Alessandro
Farruggia ricostruisce l'incidente e la gestione dell'emergenza,
indicando sei errori che hanno aggravato il bilancio. Il primo e
quasi incredibile tarlo nella sicurezza, è stato quello di costruirla
troppo vicino al livello del mare, esponendola fatalmente al rischio
tsunami. In origine la centrale doveva trovarsi su una collinetta alta
34 metri, ma si decise di spianarla per risparmiare i costi del
pompaggio dell’acqua di mare per il sistema di raffreddamento. Anche il
rischio sismico e quello dello tsunami vennero sottovalutati.
Inoltre, il reattore 1 aveva un design inadeguato e il reattore numero 4
aveva la scocca fallata.
Il sesto errore inscritto nel Dna di Fukushima fu quello di voler
risparmiar sui costi di realizzazione delle parti non nucleari della
centrale. I primi cinque reattori di Fukushima furono infatti costruiti -
seguendo pedissequamente il progetto originario della General Electric
senza adeguarlo alle condizioni del sito - mantenendo i generatori di
emergenza e i quadri elettrici non all’interno del più protetto edificio
del reattore ma nei locali turbine.
Sui piani di emergenza e di evacuazione, sulle responsabilità e i risarcimenti, sugli organismi di controllo punta il dito Greenpeace International in un suo recente dossier, "Lessons from Fukushima".
Ci sono, infatti, ancora molte domande che aspettano una risposta: come è possibile che, nonostante tutte le rassicurazioni sulla sicurezza dei reattori, sia potuto avvenire un incidente nucleare di tale gravità in uno dei Paesi industrialmente più avanzati al mondo? Perché i piani di emergenza e di evacuazione non hanno garantito la protezione delle persone da un'eccessiva esposizione alla ricaduta radioattiva e dalla contaminazione che ne è derivata?
E ancora: perché il governo del Giappone, a un anno di distanza, non
riesce ancora a proteggere i suoi cittadini dalle radiazioni?
Perché le oltre centomila persone che subirono la maggior parte dagli
effetti dell'incidente nucleare ancora non ricevono un adeguato
sostegno, finanziario e sociale, teso ad aiutarle a ricostruire le loro
case, le loro vite e le loro comunità?
Secondo Greenpeace, i rapporti sulla contaminazione elaborati
immediatamente dopo il disastro non vennero mai mandati al Gabinetto del
Primo ministro dove si prendevano le decisioni e migliaia di persone
vennero evacuate in aree fortemente contaminate, a causa di un mancato
coordinamento.
In un ospedale e in una casa di riposo vicino alla centrale, morirono 45
dei 440 pazienti dopo che il personale abbandonò le strutture. In
diversi ospedali della Prefettura di Fukushima venne interrotto il
servizio dopo che centinaia di medici e infermiere si rifiutavano di
lavorare per non essere esposti alle radiazioni.
D'altronde, si insegna, che in caso di incidente nucleare, bisogna
chiudersi in casa, e i giapponesi rispettano le regole. Anche questo
principio venne meno, perché è possibile solo per un tempo limitato e
non per 10 giorni e tanto durò l'esposizione massiccia di radiazioni
nell'area di Fukushima.
Anche la situazione di post-emergenza si è rilevata piena di problemi.
Le autorità giapponesi continuano a non riuscire a prevedere la portata
della contaminazione del cibo e delle colture. Questo ha portato a
scandali che hanno ulteriormente minato la fiducia del pubblico e
causato inutili danni economici aggiuntivi agli agricoltori e ai
pescatori.
In totale le persone evacuate sono state 150.000, molte delle quali hanno perso tutto
e non hanno ancora ricevuto un adeguato risarcimento. La legislazione giapponese in tema di risarcimenti e compensi stabilisce che non c'è un tetto massimo di risarcimento che il gestore di reattore nucleare, in questo caso l'azienda Tepco, deve pagare per i danni causati a terzi.
Non sono previste tuttavia norme e procedure dettagliate su come e quando i risarcimenti saranno pagati, né viene definito chi ne abbia diritto e chi no. Inutile dire che la Tepco finora è riuscita a sfuggire alle proprie responsabilità e non ha risarcito adeguatamente le persone e le imprese che sono state drammaticamente colpite dall'incidente nucleare. Greenpeace sottolinea che gran parte del costo dei risarcimenti sarà comunque sostenuto non dalla Tepco, ma dallo Stato e quindi dai contribuenti.
In Giappone, i rischi di terremoti e tsunami erano ben conosciuti anni prima del disastro. L'industria e le autorità di regolamentazione rassicuravano la popolazione sulla sicurezza dei reattori in caso di calamità naturale. Lo hanno fatto per così tanto tempo che hanno iniziato a crederci loro stessi.
È sintomatico di quest’atteggiamento il fatto che, dopo l’incidente, molti politici giapponesi (e non solo) si preoccuparono di come ripristinare la fiducia dell'opinione pubblica nel nucleare e non di come tutelare efficacemente le persone dai rischi delle radiazioni.
Katsunobu Onda, autore nel 2007 del libro “Tepco, l’impero oscuro”, spiega anche il perché: “Se il governo giapponese e la Tepco avessero ammesso che un terremoto poteva creare danni alla centrale questo, in un paese sismico come il Giappone, avrebbe lanciato sospetti sulla sicurezza di tutti i reattori”.