Ogni anno in Nigeria centinaia di fuoriuscite dagli impianti petroliferi provocano danni significativi all’ambiente, distruggono i mezzi di sussistenza e pongono a grave rischio la salute umana. Queste fuoriuscite sono causate dalla corrosione e dalla scarsa manutenzione delle infrastrutture, da sabotaggi e da furti di petrolio.
Secondo Amnesty International, molte compagnie petrolifere attribuiscono la maggior parte delle colpa agli atti di sabotaggio e furti, nonostante i fatti smentiscano quest’affermazione. Nel rapporto “Nigeria: Bad information: Oil spill investigations in the Niger Delta”, a finire particolarmente sotto accusa è la Shell, dai cui impianti ci sono state oltre 2500 fuoriuscite negli ultimi 4 anni; secondo l’Ong, la compagnia dice il falso: «È in malafede – spiega Audrey Gaughran, direttrice del Programma Temi globali – per quanto riguarda la devastazione provocata dalle sue attività nel Delta del fiume Niger. Le nuove prove rivelano che le informazioni fornite dalla compagnia sulle fuoriuscite di petrolio non possono essere affidabili».
Nuove analisi eseguite dagli esperti indipendenti del gruppo statunitense Accufacts hanno infatti rivelato che i cosiddetti rapporti ufficiali d’indagine possono essere «molto soggettivi, fuorvianti e addirittura falsi». In un caso contenuto nel Rapporto, un video registrato in segreto mostra come, durante un’indagine, funzionari della Shell e dell’organo regolatore cerchino di cambiare le prove, persuadendo i membri della comunità partecipanti all’indagine a non attribuire la causa al malfunzionamento degli impianti. Immagini di una fuoriuscita avvenuta a Bodo nel 2008 mostrano invece come la compagnia abbia gravemente ridimensionato la quantità di petrolio fuoriuscito. Il rapporto ufficiale d’indagine si riferiva a soli 1640 barili ma sulla base di altre prove il totale sarebbe almeno 60 volte maggiore.
Il motivo per cui la Shell mira a scaricare su altri o a ridimensionare le proprie responsabilità? È il mercato, bellezza… Per scontare o evitare di pagare i risarcimenti alle comunità locali.
Dal Rapporto, emergono chiaramente le debolezze del sistema nigeriano di accertamento dei motivi delle fuoriuscite e della loro quantità. Per esempio, alle compagnie petrolifere viene permesso di indicare la cause, senza bisogno di convalidarle attraverso prove complete e indipendenti. Gli organi regolatori nigeriani, dotati di risorse insufficienti, possono controllare ben poco e dipendono dalle compagnie petrolifere per compiere le indagini. In un caso di fuoriuscita, l’unico rappresentante istituzionale era uno studente inviato sul posto per fare un tirocinio. Secondo Amnesty, «è un sistema che si presta ampiamente all’abuso. È come se le compagnie petrolifere dicessero: “Fidatevi di noi, siamo i giganti del petrolio!”». Anziché vestire i panni degli imputati, si comportano così come il giudice e la giuria e condannano all’ergastolo la comunità locale costretta a subire le conseguenze dell’inquinamento.
Inoltre, secondo Audrey Gaughran, le compagnie petrolifere, per non farsi carico del problema, «chiamano in causa il sabotaggio e i furti come se ciò le assolvesse dalle responsabilità.
Il Delta del Niger è l’unico posto al mondo in cui le compagnie ammettono sfacciatamente che dalle loro attività deriva un massiccio inquinamento ma sostengono che non sia loro la colpa. In quasi qualunque altro posto, verrebbero chiamate a spiegare perché hanno fatto così poco per impedirlo».
Sempre nel Rapporto di Amnesty, a finire sul banco degli imputati è anche l’Agip, una sussidiaria della compagnia italiana Eni. Sebbene operi in una zona più piccola, negli ultimi anni ha avuto il doppio delle fuoriuscite della Shell; nei primi nove mesi del 2013, sono 471 quelle della compagnia italiana e 140 quelle dell’americana. Anche l’Agip, come la Shell, attribuisce la vasta maggioranza delle fuoriuscite ai sabotaggi senza fornire alcuna prova a sostegno delle sue affermazioni. «Finora – commenta l’ong – i mezzi d’informazione e gli azionisti della compagnia mostrano di accettare questa versione». Da qui, la richiesta di Amnesty alle compagnie petrolifere «di rendere pubblici tutti i rapporti d’indagine con foto e video, e di fornire prove verificabili sulle cause e sui danni provocati nell’area».