«Voglio ringraziarvi perché tutte le mattine mi aprite una finestra
sul mondo». Adele, 62 anni, torinese, ha sintetizzato così la sua esperienza di spettatrice, assidua, del Social Media Week che si è chiusa a Torino: una manifestazione dedicata all'universo di Internet e dei social network che si è svolta in contemporanea in 14 città del mondo e ha registrato uno straordinario successo, con 30.000 partecipanti, dei quali 20.000 grazie alla diffusione via streaming di tutte le conferenze, collegati da ogni parte d’Italia e del mondo.
Il prossimo evento "globale" del Social Media Week si svolgerà a
Milano, dal 18 al 22 febbraio 2013. Intanto, vale la pena ragionare
sulle "provocazioni" emerse dall'edizione torinese, premiata davvero
dai principali indicatori dei social network, cioè Facebook
e
Twitter. Il numero di utenti individuali che
hanno consultato contenuti sulla pagina Facebook del Social Media Week
di Torino è stato di 680.903 persone. E la manifestazione è stata
costantemente nei primi posti dei Trending
Topics di Twitter, spesso
anche al primo posto, con un traffico globale di oltre 205.000 tweet con
l'hashtag #SMW12, e
più di 20.000 con l'hashtag #SMWTorino, con una punta martedì 25 settembre, giorno in cui il Social Media Week è stato tra i primi dieci
argomenti twittati al mondo.
«Torino è stata davvero sotto l’occhio del web globale per 5 giorni», dicono Vittorio
Bo e Salvatore Perri, i due organizzatori che
hanno portato l'evento in Piemonte. «La soddisfazione maggiore è aver fatto conoscere la
nostra città nella sua parte più viva e avanzata, fatta di innovazione, creatività,
impegno e disponibilità verso ambienti in continua evoluzione come quelli del digitale.
Abbiamo avuto oltre 10.000 partecipanti agli incontri, ma il dato più interessante è
l’incredibile numero di persone che si sono collegate in streaming da ogni angolo del pianeta; grazie alla tecnologia abbiamo raggiunto un totale di oltre 30.000 persone».
A Torino i sono incontrati e confrontati i maggiori esperti del web del
panorama italiano e non solo, con migliaia di visitatori nei luoghi che
hanno ospitato i dibattiti, i
laboratori, le conferenze, le presentazioni e le conversazioni, con 14
città coinvolte per 5 giorni, grazie alla condivisione, alla
possibilità di assistere agli incontri in streaming, live e on demand,
su
socialmediaweek.org/torino e su telecomitalia.com/smw12. È importante sottolineare come l'ultima Social Media Week non abbia coinvolto soltanto gli addetti ai lavori,
ma persone di tutte le età: la fascia di maggiore affluenza è stata quella tra i 25 e i 44
anni, ma anche i giovani, dai 13 ai 17 anni, sono intervenuti numerosi, il 7,8% delle
presenze; e gli over 65 non sono mancati, con un 2% di partecipazione. Così com’è
importante evidenziare che è intervenuto un pubblico eterogeneo, con il 40% di
presenze femminili.
Giornate che sono state immortalate dalle 1.500 foto degli Instagramers,
gli appassionati della "App" Instagram con la quale è possibile
modificare e condividere sui social network le immagini staccate con gli
smartphone. «Siamo soprattutto fieri di essere tra i primi al mondo
ad aver coinvolto
interattivamente il pubblico della Rete grazie agli "Hangouts on Air", una
funzione di Google Plus (il concorrente di Facebook creato da Google) che consente streaming pubblici facili e condivisibili ovunque sul web. E tutto questo all’interno dei Chill Out Digitali di Telecom Italia, uno dei primi esperimenti in questa
direzione, che verrà ricordato come una frontiera attraversata dall’avanguardia
digitale», ha spiegato Vittorio Bo.
Una delle conferenze più applaudite al Social Media Week di Torino è stata "Vite virtuali dell'oggi e città future di domani". Relatore, Carlo Ratti, 41 anni, docente al Massachusetts Institute of Technology di Boston, dove insegna "Urban technologies", urbanistica e nuove tecnologie. E dove dirige, inoltre, un gruppo di ricerca che si chiama SENSEable City Laboratory, con una seconda sede a Singapore.
Professore, che cosa fate esattamente in questo gruppo?
«Cerchiamo di indagare come la tecnologia sta cambiando il nostro modo di capire la città, di progettarla e, in ultima analisi, di viverla.
Le strutture con cui operiamo sono il Senseable city lab, laboratorio di ricerca presso il MIT di Boston, dove sviluppiamo ricerca e vision generale sul futuro delle metropoli (http://seneable.mit.edu); il Carlorattiassociati - ufficio di design a architettura con base a Torino, Londra e Boston, dove nascono i progetti, da un semplice elemento di arredo a un'intera città (http://www.carloratti.com); e le startup: diversi nostri progetti diventano start-up con società costituite ad hoc. Abbiamo appena ricevuto fondi di venture capital per la Copenhagen Wheel, ad esempio.
In generale, quello di cui ci occupiamo sono le cosiddette "smart cities", anche se a noi piace definirle "senseable cities", nome che ha una dimensione più umana e mette al centro le persone, non la tecnologia».
Può spiegare meglio il concetto di "smart cities"?
«Si tratta di questo.
Le città, coperte di sensori e di reti elettroniche, si stanno trasformando in computer all’aria aperta.
Si può dire che Internet stia invadendo lo spazio fisico, un fenomeno
che spesso passa
sotto il nome “smart city”. Questa evoluzione ha investito anche altre
realtà e oggi siamo all’esordio di una dimensione ibrida, tra mondo
digitale e mondo materiale, che sta trasformando il nostro modo di
vivere. Prendiamo, per esempio, le gare di Formula 1: vent’anni fa per
vincere erano necessari un buon motore e un bravo pilota; oggi c’è
bisogno di un sistema di telemetria, basato sulla raccolta di dati da
parte di migliaia di sensori posti sulla macchina e sulla loro
elaborazione in tempo reale.
In modo analogo le città di oggi ci permettono di raccogliere una mole
di informazioni senza precedenti, che possono poi essere trasformate in
risposte da parte degli abitanti o dell’amministrazione pubblica.
L’universo delle "app" urbane è il segnale più evidente di questa
evoluzione. Per esempio, l’app per telefonini Waze, che contribuisce a far funzionare meglio il traffico grazie alle segnalazioni degli utenti. Oppure Open Table,
che permette ai clienti di prenotare direttamente il ristorante (negli
Stati Uniti quasi nessuno usa più il telefono per cercare un tavolo).
Professore, che cosa intende esattamente per vite virtuali dell'oggi?
E lo intende in modo negativo, rimpiangendo quasi delle vite
(finalmente) di nuovo "reali"?
«Il termine “virtuale” non ha un'accezione negativa. Ma caratterizza
piuttosto un nuovo aspetto della nostra quotidianità: l’ utilizzo delle
nuove tecnologie digitali come strumento per migliorare molteplici
aspetti delle nostre città».
Come dobbiamo immaginare queste "città future di domani"? E lei ne ha
in mente una visione solo architettonica, oppure anche un ambiente
sociale, umano, relazionale, profondamente cambiato dal gioco dei social
network?
«Quelle che noi definiamo “città sensibili” sono città che attraverso
le reti, il digitale e i sensori, ci parlano, fornendoci continuamente
dati da elaborare e incrociare. Le informazioni ottenute da queste
analisi possono avere infinite applicazioni: dalla riduzione dei consumi
energetici, allo snellimento del traffico, fino al miglioramento della
raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. A mio avviso non è possibile
separare l’ambiente architettonico da quello sociale. Infatti, sono i
cittadini stessi che, con le loro esigenze e necessità, modificano e
rendono vivo lo spazio della città. Non dimentichiamoci che i cittadini
– intesi come persone - sono al centro dei nostri progetti, le tecnologie
sono solo uno strumento per migliorarne lo stile di vita.
Prendiamo quattro città: New York, Londra,
Pechino, Milano: come possiamo immaginarle tra cento
anni? Che cosa ci sarà che adesso non c'è già? Come funzioneranno le
relazioni tra gli uomini nell'ambiente urbanistico? È immaginabile
ipotizzare che saranno ancora di più stravolte dai social media?
«A prima vista, la città di domani non sarà molto diversa da quella
di oggi. Come i Romani di 2000 anni fa abbiamo bisogno di piani
orizzontali sui quali muoverci e di finestre che ci proteggano dalle
intemperie. Tuttavia, quel che cambierà di più domani sarà il modo di
vivere lo spazio, grazie a nuove forme di condivisione
dell’informazione, la carta vincente. Per i
progettisti si aprono nuovi scenari, nei quali l’architettura non si
occupa solo dei “gusci” costruiti, ma fa dialogare informatica e scienze
sociali.
In Italia poi non si tratta di immaginare città futuristiche, quanto
piuttosto di ri-progettare le città di oggi. Il modello smart city è
un’occasione molto importante per il nostro Paese. In una nazione in cui
la popolazione non cresce e gli standard abitativi non cambiano (anzi,
per effetto della crisi la superficie pro capite delle abitazioni
potrebbe ridursi), non si può più pensare a espandere le aree urbane
come nel secolo scorso: oltre a consumare inutilmente territorio vergine
(greenfield, come si dice in inglese) ciò si traduce inevitabilmente
nello svuotamento delle aree già edificate, esponendole al rischio del
degrado.
Importante sarà invece valorizzare il patrimonio esistente, correggendo
gli errori urbanistici del secolo scorso e usando le nuove tecnologie.
Un esempio è il traffico: abbiamo già auto che si guidano da sole o reti
che ci permettono di non sprecare tempo e benzina alla ricerca di un
parcheggio. Molti dei problemi si risolvono utilizzando meglio le
infrastrutture che già esistono. Con meno asfalto e più silicio».
E tutti questi dati come potranno riprogettare le strutture
urbanistiche? Cioè, grazie agli input dei social media, saranno diverse
le case, le strade, le piazze, i ristoranti, in punti di ritrovo?
«Le informazioni in tempo reale permetteranno ai cittadini di
modificare la loro città. Partiamo da un esempio comune: il traffico.
Attraverso le informazioni in tempo reale ottenute dalle reti potremmo
ottimizzare tempo e benzina alla ricerca di un parcheggio o modificare
la strada per tornare a casa in modo da evitare inutili ingorghi».
Come si vivrà, che cosa si farà, come si comunicherà tra le persone?
«Le tecnologie di cui stiamo parlando hanno lo scopo di migliorare la
nostra vita quotidiana. Il modo di comunicare sarà forse diverso ma
questo non vuol dire che non ci saranno più rapporti sociali tra le
persone, anzi.
Un aspetto interessante è il seguente paradosso: una tecnologia
onnipresente ma invisibile, che esiste proprio perché possiamo
dimenticarci di essa e concentrarci sulle cose che contano: una vita più
semplice, un ambiente piacevole e la capacità di costruire una ricca
trama sociale.
E come muteranno i nostri comportamenti? Ci renderanno ancora più
"digitali" di oggi? O ci
renderanno più consapevoli? Già oggi, sulle metropolitane, o negli spazi
aperti, migliaia di persone, in particolare i giovani, camminano con le
cuffie in testa, senza scambiare una parola, sostanzialmente "soli". Gli stessi social media, nelle città future, saranno in grado di
migliorare questi comportamenti, già pericolosamente "aridi"?
«Sicuramente ci sarà più consapevolezza dovuta proprio a questa
maggiore conoscenza diffusa. Già oggi molti Comuni stanno divulgando
l’uso di linee dirette che diano al cittadino l’accesso a servizi ed
informazioni riguardanti la municipalità. Così come la possibilità di
segnalare problemi od altro. Questo rende i cittadini più informati e
quindi più partecipi e responsabili».
E davvero la coscienza ambientale e l'approccio ecosostenibile trarrà
giovamento da nuovi contesti urbani disegnati dalle nuove tecnologie? E
come?
«Su questo non c’è dubbio. Come già accennato, grazie all’ uso di
sensori sarà possibile monitorare aspetti quali i consumi energetici e
lo smaltimento dei rifiuti. A tale proposito con il SENSEable City Lab
del MIT abbiamo condotto una ricerca a Seattle marcando gli scarti di
400 volontari. L’esperimento ha condotto a risultati inaspettati:
monitorare i viaggi compiuti dai rifiuti attraverso gli Stati Uniti ci
ha permesso di sviluppare progetti per ottimizzare il processo di
raccolta e smaltimento della spazzatura, ma soprattutto abbiamo notato
come la condivisione di informazioni influenzi i comportamenti del
singolo individuo. Sono stati molti i volontari che, dopo esser venuti a
sconoscenze dei lunghi viaggi di una loro bottiglia di plastica, hanno
autonomamente deciso di aumentare l’ uso del vetro a discapito della
plastica».
Siamo abituati ormai al concetto di "nativi digitali", cioè i ragazzi nati dopo lo sviluppo pieno di Internet, diciamo dal Duemila in poi, cresciuti avendo confidenza con la Rete e con le nuove frontiere della tecnologia. Ragazzi, tanto per fare un esempio, che quasi non guardano più la Tv, ma che sono capaci, via web, attraverso smartphone e tablet, di costruirsi un palinsesto personalizzato. Ma ci sfugge spesso un altro concetto, quello dei "tardivi digitali", che non sono soltanto, come si potrebbe immaginare, le persone dai sessant'anni in su, ma anche tanti 40-50enni, che sì usano il web e i social network, ma fanno fatica a sfruttare, soprattutto in ambito professionale, al 100 per cento la Rete e le sue possibilità, non solo in termini di comunicazione ma di businness.
Anche di questo si è discusso al Social Media Week di Torino nella conferenza Non è mai troppo tardi 2.0: come spiegare l’innovazione ai "tardivi digitali”.
Ne ha parlato a Torino Pietro Dotti, fondatore e amministratore delegato di Eggers 2.0 che, com'è scritto nel sito Internet (http://eggduepuntozero.com), è un laboratorio di ricerca e produzione di comunicazione, aperto alla partecipazione di aziende, di studenti e studiosi dei linguaggi visivi. Il nucleo centrale di questa azienda torinese è costituito da ragazzi interessati a sviluppare il proprio talento creativo-tecnico e ad acquisire il know-how necessario a trasformare le proprie attitudini in business. A tutti questi giovani Eggers 2.0 riconosce una retribuzione. Ogni lavoro, ogni progetto è seguito da tutor, esperti nei vari settori, che collaborano in parallelo ad aziende e studenti. Le collaborazioni spaziano in ogni area e settore; ideatori di format, cartoonist, film maker, designer o web designer, art director, registi, scenografi o scultori.
Pietro Dotti, tuttavia, preferisce definire Eggers 2.0 una "factory
creativa", fondata tre anni fa in collaborazione con l'Università di
Torino, «che produce progetti di comunicazione, eventi, strategie
digitali. Con noi lavorano 25 ragazzi dai 20 ai 28 anni, il cui denominatore comune è la creatività unita a una conoscenza specializzata dei social media». E da questa realtà dinamica del tessuto imprenditoriale
torinese arriva l'idea di spiegare l'innovazione ai
"tardivi digitali". L'amministratore delegato di Eggers 2.0 ha proposto al Social Media Week un parallelo interessante: come la Rai negli anni Sessanta è stata proptagonista di una concreta alfabetizzazione di tante parti culturalmente arretrate del nostro Paese, insegnando proprio a leggere e a scrivere grazie a una trasmissione storica della televisione italiana, così l'azienda torinese si propone sul mercato come un'opportunità per una conoscenza più approfondita del web e delle sue potenzialità, soprattutto nel mondo degli affari.
Spiega Pietro Dotti: «Noi abbiamo elaborato questo tipo di prodotto non solo per le aziende, ma anche per le istituzioni, per i partiti politici, con alcune giornate di approfondimento sui social network e sulle loro potenziali ricadute nel mondo dell'impresa. Certo, anche manager, imprenditori e liberi professionisti usano i più moderni telefoni smartphone per navigare, chattare, postare riflessioni e commenti su Facebook o Twitter. Ma il più delle volte ne fanno un uso superficiale, non sfruttano al 100 per cento la Rete. Perché, solo per fare un esempio, i social network che possono far conoscere meglio un brand o un'azienda sono molti di più di Facebook e Twitter, e nella maggior parte dei casi sono frequentati solo dai giovanissimi, mentre possono essere "cavalcati" meglio a livello di comunicazione d'impresa, per campagne di marketing più capillari e mirate. Ecco, il nostro obiettivo è prendere questi "tardivi digitali", spesso anche quarentenni, e traghettarli verso il mondo della Rete più d'avanguardia, verso la frontiera digitale più spinta».