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sabato 12 ottobre 2024
 
 

Garzonio: Martini, spirito profetico

31/08/2012  L'intellettuale milanese, fra le persone più vicine al cardinale per tanti anni, ricorda il suo costante confronto con i fatti storici, dal terrorismo al lavoro alla corruzione.

Uno spirito profetico, che sapeva farsi interrogare dalla realtà storica, interpretandola alla luce del Vangelo. Così Marco Garzonio, persona fra le più vicine al cardinale Martini, lo ricorda a pochi istanti dalla scomparsa. Eminente intellettuale legato alla città di Milano, giornalista, psicanalista, docente alla Cattolica, Garzonio racconta che da tempo si stava preparando all'evento: «Il Parkinson è progressivo, eravamo preparati alla notizia».

Cosa ha rappresentato il cardinale Martini per Milano e per la Chiesa?
«Come ogni vero spirito profetico, è partito dalla realtà che gli era stata assegnata, la diocesi di Milano, per realizzare la sua testimonianza cristiana. Il suo sforzo è sempre stato quello di cercare il punto di incontro fra il Vangelo e i problemi, anche drammatici, sconvolgenti, della storia».

Ricorda qualche episodio?

«Quando, a causa del terrorismo, si precipitò in Statale. O quando fu ucciso l'ingegnere dell'Icmesa Paolo Paoletti... Ecco, in queste occasioni vedemmo all'opera il Martini che affronta la minaccia alla democrazia. Oppure il Martini che, fin dall'82, colse la sfida dell'immigrazione e pose il problema dell'accoglienza. O quando l'anno successivo, quindi ben nove anni prima che scoppiasse Tangentopoli, denunciò la corruzione. O, ancora, quando, nell'82, visitò la Pirelli, incontrando gli operai che non riuscivano a chiudere il contratto con Leopoldo Pirelli: qui anticipò le trasformazioni del mondo del lavoro».

Qual era la sua forza? Da dove veniva questa sua "lucidità" nel leggere la storia?
«Anzitutto dal carattere: riflessivo, introverso, timido. Dalla tempra, che gli aveva dato l'ordine di appartenenza, quello dei gesuiti. Dalla Bibbia: fu tra i primi a praticare una critica testuale dell'Antico Testamento, quando ancora ai laici non era concesso. Infine: dalla ricettività rispetto alla realtà. Sapeva bene che non siamo noi a cambiare la storia, bensì la storia a cambiare noi. E lui, da uomo curioso e di grande cultura, si è lasciato plasmare dalla realtà. Lo fece fin da quando, 52 enne, entrò a Milano senza grandi esperienze pastorali. Accettò l'osmosi fra la sua persona e la realtà esterna».

Ha qualche ricordo personale che le è caro?
«Era sempre lì a meditare... Chiedeva: che ne pensi? Aveva una grande capacità di ascolto».

Fra le iniziative che più hanno segnato i tempi c'è stata la celebre cattedra per i non credenti...
«Una volta scoppiò una polemica fra credenti e non credenti. Lui intervenne dicendo: la polemica può esserci solo fra chi pensa e chi non pensa... Diceva: anch'io mi interrogo sul mio essere non credente... Sapeva mettersi in discussione».

Quale eredità ci lascia?
«Quella di una Chiesa profetica, che non si sofferma sui dettagli, sulle prescrizioni, ma va alla radice del messaggio evangelico. Una Chiesa che libera. Che sa andare al di là del contingente».

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