A volte basta una parola. Per esempio “resolve”, che significa decisione, determinazione, grinta. L'ha usata il New York Times, il quotidiano (americano) tra i più inclini alle campagne russofobiche degli ultimi tempi, per dire che “Regno Unito e Francia si uniscono ai raid per mostrare il resolve, appunto, dell'Occidente". La stessa parola, resolve, aveva segnato la sfortunata campagna elettorale di Hillary Clinton, che predicava più determinazione e più grinta nella gestione delle relazioni internazionali. Un giornale è solo un giornale ma questo titolo ci dice alcune cose.
La prima è che Donald Trump, incalzato dalle accuse di debolezza, se non di complicità, nei confronti della Russia, è stato espropriato della Casa Bianca ed è ormai totalmente dominato dai militari e dai politici che sono espressione del complesso militar-industriale degli Usa, che con la sola produzione bellica vale il 10% del Prodotto interno lordo del Paese. Per conseguenza, gli Usa sono ormai tornati alla politica neo-con gestita da un fronte trasversale di democratici e repubblicani, che con le sue imprese di stampo coloniale (Afghanistan 2001, Iraq 2003, Ucraina 2014) ha segnato un'epoca, solo di poco mitigata durante l'amministrazione Obama, comunque corresponsabile della costruzione del sistema missilistico in Romania e Polonia (2008) e della distruzione della Libia (2011).
Gli attacchi contro le basi di Bashar al-Assad, forse colpevole e forse no di aver usato armi chimiche contro l'ultimo caposaldo dei terroristi di Jaysh al-Islam (l'Armata dell'Islam) nella città di Douma, non sono un bombardamento umanitario, come Trump, Teresa May e Emmanuel Macron vorrebbero far credere, ma un bombardamento politico. E l'obiettivo non è la Siria, ma la Russia. Come appunto voleva la Clinton, il candidato scelto e sostenuto, nella corsa alla Presidenza del 2016, dalle lobby degli armamenti e della difesa e dallo schieramento neo-con.
La Russia elemento di disturbo per la strategia Usa di "esportare la democrazia"
La Russia, infatti, è diventata negli ultimi anni un elemento di enorme disturbo per la strategia di “esportazione della democrazia”, ovvero di cancellazione di qualunque ostacolo si frapponga alla diffusione globale del modello culturale ed economico che più conviene ai centri finanziari occidentali, che fu lanciata nel 1989 dal presidente George Bush senior e dal suo segretario di Stato James Baker.
Vladimir Putin, dal Cremlino, ha lanciato un'opera di ricostruzione del ruolo nazionale che ha sorpreso molte capitali. Nel 1998 la Russia dichiarò il default, ovvero l'impossibilità di restituire i prestiti ottenuti dagli altri Paesi. Putin, nel 1999 diventato primo ministro, l'anno scorso ha potuto dichiarare la Russia libera da qualunque debito estero, compresi quelli contratti all'epoca dell'Urss. La nazione che il senatore John McCain ha definito “una pompa di benzina travestita da Paese” ha ricompattato l'unità interna, rilanciato l'orgoglio nazionale, ricostituito le forze armate. E poi, sfidando la reazione degli Usa e dei loro alleati, è tornata a competere sulla scena mondiale.
Putin sarà un dittatore cinico e cattivo, ma il punto non è questo. L'Occidente ha un sacco di ottime relazioni con dittatori cinici e cattivi: basta vedere l'accoglienza trionfale che i super-democratici boss di Amazon, Google e delle major di Hollywood hanno appena tributato a Mohammed bin-Salman, principe ereditario e uomo forte dell'Arabia Saudita. È la competizione proposta dalla Russia il vero punto cruciale, l'elemento di disturbo che l'Occidente non può tollerare. Da questo punto di vista, quindi, tra il “caso Skripal” (la vecchia ex spia che sarebbe stata avvelenata con il gas nervino, un'evidente bufala) e le armi chimiche, vere o presunte, su Douma non c'è molta differenza. Dopo aver lavorato per un ventennio per dividerla dall'Europa e spingerla ai margini (allargamento a Est della Ue e della Nato, demolizione della Jugoslavia e ricostruzione dei Balcani con la nascita del Kosovo, sostegno al rovesciamento del presidente filorusso Janukovich in Ucraina), oggi si tratta di creare intorno alla Russia un cordone sanitario di sanzioni, penalità e ostilità che in ogni modo le leghi le mani. Esigenza tanto più urgente in Siria, dove l'intervento russo del 2015 ha segnato, soprattutto per gli Usa e per i loro alleati del Golfo Persico, una sconfitta cocente.
Per la prima volta, infatti, un piano di cambiamento di regime sponsorizzato dagli Usa è stato mandato a monte. In altre parole, Assad non ha fatto e non farà la fine di Milosevic, Saddam, Gheddafi e Janukovich. L'idea, quindi, è di usare ogni ragione e ogni pretesto per trasformare la Siria, dove l'alleanza Russia-Iran-Siria-Hezbollah ha di fatto vinto la guerra, in una riedizione dell'incubo che l'Afghanistan fu per l'Armata Rossa dell'Urss. La ragione vera degli ultimi bombardamenti, abbia o no Assad usato armi chimiche, è questa. Ora non resta che attendere gli sviluppi. Quanto è finora successo, infatti, si presta a una duplice lettura. Le bombe e i missili del trio Usa-Francia-Regno Unito hanno evitato con cura i bersagli dove avrebbero potuto fare vittime tra i militari russi e sono stati diretti verso installazioni siriane dal valore perlopiù simbolico. E la Russia non ha reagito, almeno non con le armi. Può essere un caso?
Un pompiere siriano vicino al Centro di ricerca scientifica di Damasco, in Siria, distrutto dopo il bombardamento americano (Reuters)
Tutto può succedere ma finora tutti possono dire di aver vinto
Certo, nelle prossime ore può succedere di tutto, la potenza di fuoco non manca. Allo stato dei fatti, però, sembra che la reciproca interdizione abbia funzionato. Usa, Francia a Regno Unito si erano spinti troppo avanti per non colpire. Ma il dispiegamento sul terreno e il “resolve” politico dei russi ha impedito un attacco davvero massiccio e distruttivo. In questo modo tutti salvano la faccia, tutti possono dire di aver tenuto il punto, di aver vinto. Il che, paradossalmente, è una brutta notizia per i siriani.
Da sette anni si combatte nel loro Paese e sulla loro pelle una spietata guerra, che prima è stata per procura (come anche in Ucraina) e ora è invece diretta, tra gli Usa e la Russia, con il contorno degli alleati. Se la nostra lettura di questi bombardamenti è corretta, e lascia intatto lo stallo tra le potenze, allora i siriani devono prepararsi a una lunga stagione di attentati e violenze, a una guerra di logoramento concepita per impedire ad Assad di riprendersi davvero il controllo del Paese. La stessa strategia applicata dalla Russia nel Donbass ucraino dopo il colpo di Stato sponsorizzato dagli Usa contro il presidente Janukovich, ma molto più in grande. Questo sarebbe il vero colpo contro la Russia che, come già gli Usa in tante altre situazioni dall'Afghanistan all'Iraq, dopo aver vinto la guerra ha l'enorme problema di vincere anche la pace.