E dunque: 51 giorni di guerra,
2.136 palestinesi morti, 7 mila
nati. È chiaro: si parla tanto di
terra ma il problema restano
le persone, questo popolo che
non si arrende, non si integra
e si moltiplica. Ma anche l’evidenza
va presa con le pinze,
nel gioco di specchi del Medio Oriente.
Girare per la Striscia di Gaza lo conferma
in modo clamoroso.
Ieri ero a Nahal Oz, il kibbutz sul
confine con la Striscia. Le case di Gaza
sono a 600 metri e uno dei tunnel scavati
dai guerriglieri di Hamas è sbucato,
in territorio israeliano, a 300 metri. Oggi
sono nella Striscia, intravedo Nahal
Oz nella foschia da calura, vago tra le
macerie e i crateri rimasti all’imboccatura
dei tunnel fatti saltare. Delle tante
guerre combattute qui (2001, 2004,
2007, 2008, 2009, 2012), l’ultima è stata
appunto quella dei tunnel.
Che avrebbero
sorpreso e spaventato Israele. Dalla
Striscia le cose sembrano un po’ diverse.
«Ma certo che sapevamo dei tunnel!
» dice con una risata Ahmed. Siamo
nel giardino della sua bella casa di Abassan
al Jadida, intatta a dispetto della distruzione
intorno. Figlio di un notabile
locale, conosce tutti e mi porta a vedere
un paio di tunnel distrutti.
Uno era sotto
una casa, spazzata via dai tank israeliani.
Un altro, poco più in là, era mimetizzato
tra le serre. «Le voci corrono»,
spiega Ahmed, «e poi scavare per chilometri
non è semplice: servono uomini,
attrezzi, bisogna smaltire la terra… Te
l’ho detto: lo sapevamo tutti».
L’ho sentito ripetere ovunque ci fossero
quei tunnel: anche a Shejaya alle
porte di Gaza City o alla periferia est di
Khan Younis… Se lo sapevano i palestinesi
lo sapevano gli israeliani, grazie alle
spie che hanno nella Striscia e alle comunicazioni
intercettate.
E quelli di Hamas
non potevano ignorare di essere osservati.
Nelle ragioni e nei tempi di questa
guerra, quindi, c’è un “io so che tu
sai che io so” da decifrare. E bisogna accettare
l’idea che forse l’assassinio dei
tre poveri studenti israeliani ebbe un
ruolo ancor più oscuro di quel ch’era
parso all’inizio. Voluto da Hamas, costretto
alla “pace” con Al Fatah e Abu
Mazen dopo il blocco imposto dall’Egitto, per far saltare il banco? Gestito da
Israele per avviare la guerra che prima
o poi avrebbe comunque fatto?
Più chiara, invece, la questione dei
modi. Ognuno racconta la propria verità:
per Israele, incursioni mirate e civili
morti solo perché Hamas li usava come
scudi umani; per Hamas, strage indiscriminata.
Sul posto… Le incursioni mirate
dei cacciabombardieri hanno abbattuto
case e palazzi senza quasi sfiorare
quelli accanto. È facile riconoscerle: gli
edifici sono accasciati su sé stessi, come
schiacciati a terra da una mano gigante.
La gente, qui, ha una certa pratica.
Khaled, che vive in un buon quartiere
di Gaza City: «All’inizio dei bombardamenti
ho tolto tutte le finestre di casa e
le ho messe sotto un mucchio di tappeti.
Anche per evitare che volassero
schegge dappertutto. Ho una bambina
piccola».
Il suo appartamento affaccia
su una piazza dove, in luglio, gli uomini
fumavano narghilè e guardavano i
Mondiali sul maxischermo. Di fronte
c’è quella che chiamavano Italian
Tower: dieci piani, spaccati in verticale
dai missili degli F16. La fumeria è stata
subito riaperta, a dispetto dei lastroni
di cemento che pendono dal palazzo:
«Dobbiamo lavorare», spiega Walid,
uno dei proprietari, «siamo 15 parenti e
abbiamo investito qui tutti i risparmi
della famiglia».
Anche Farez ha preso precauzioni:
valigie pronte con i pochi oggetti di valore
e il necessario per sé, moglie e due
figli in età da scuola elementare. Ha fatto
bene. Abitava in un’altra delle “torri”
abbattute: quando gli israeliani hanno
lanciato il primo, piccolo missile di avvertimento
sul tetto, sono scappati salvando sé stessi e un po’ di cose.
Altri
inquilini hanno perso tutto tranne
la vita. Ora vivono in tende polverose
con scritto: terzo piano, sesto piano…
In giro per la Striscia ho anche raccolto
testimonianze sul fatto che i miliziani
di Hamas hanno costretto, con le
armi in pugno, intere famiglie a restare
nelle case minacciate. Qualcuno che voleva
scappare è stato ucciso. Per aumentare
il numero dei morti e la solidarietà
internazionale o sperando che gli israeliani
si fermassero, non so. Comunque
questo è ciò che la gente racconta.
Tutto cambia, invece, quando ci si
sposta più vicino al confine con Israele.
Per due ragioni. Intanto, in queste aree
di solito vivono i poveri di una popolazione
che, pur nell’emergenza, è comunque
stratificata. I quartieri commerciali
di Gaza City sono intatti, e con loro la
borghesia che li anima. Ma i proletari
di Shejaya, dell’Est di Khan Younis, di
Beit Hanoun, di Khuza, hanno subito in
pieno l’avanzata delle forze corazzate
di Israele. E qui di mirato c’è stato poco,
interi quartieri sono ora in polvere. I
tank, seguiti dai bulldozer, hanno spianato
tutto ciò che avevano di fronte,
per stroncare la resistenza, ridurre le
perdite, sgombrare il terreno.
La gran parte dei morti è arrivata in
questa fase. E 91 famiglie palestinesi
sono state cancellate: di loro non resta
più nessuno. Mukhlis, a Beit Hanoun,
indica una ruota che spunta dalle macerie:
«Avevo due automobili», dice, «facevo
il taxista, ora non ho più casa né lavoro.
Ma ricomincerò». Due figli adolescenti,
non sembra essersi perso di spirito,
anche se guarda il quartiere disastrato
e si chiede: «Quando finirà tutto questo?
».
Tra le macerie bivaccano bambini
e ragazzi. Presidiano le rovine. Chiamano
il padre se passa qualcuno che potrebbe
portare aiuto. Custodiscono il
cartello che dice: qui viveva la famiglia
di Ayman, carta d’identità numero tale,
telefono... Per non perdere il posto nella
futura ricostruzione.
Dopo la guerra sono stati fatti diversi
sondaggi. Risultato: Hamas più
popolare di prima. Ho ragioni per dubitarne.
Con me, straniero e giornalista,
nessuno ha parlato di “vittoria” o “resistenza”.
Al contrario. La gente è più
che stufa: è sfatta. Detesta Israele, per
il blocco aria-terra-mare che rende Gaza
un ghetto con una sola uscita: il
confine con l’Egitto, ora governato da
Al Sisi, che teme il contagio islamista
e odia Hamas. Ma il consenso per Hamas
è pura facciata. Il movimento controlla
la Striscia con pugno di ferro.
Prima con la gestione del denaro e dei
favori, decisiva dove il 70% non ha lavoro
e il 70% di chi ce l’ha lavora per organizzazioni
umanitarie straniere.
E
poi con una triplice polizia: normale,
politica o morale. Quest’ultima fatta di giovani con la barba che girano in
moto, pronti a segnalare i comportamenti
non consoni all’islam. Nella Striscia
sono pericolosi anche gli Sms che
i servizi di Israele mandano a caso ai
cellulari: lavora con noi, costruisci un
futuro… Li ho visti arrivare e l’accusa
di essere una spia, magari inventata
da un vicino di casa rancoroso, qui
può costare la vita.
Chiedere ai palestinesi di Gaza di
confessarsi ai sondaggi è dunque una
barzelletta. Anche perché avanza veloce
l’islamizzazione. La religione è uno
strumento di governo onnipresente.
Ero stato qui nel 2009, adesso ho visto
un’infinità di nuove moschee. Allora
ero vissuto in casa di una famiglia musulmana,
adesso ho dovuto fare attenzione
a tutto. Impossibile fotografare i
mercati, affollati di mamme con bambini
scatenati nella scelta degli zainetti
per la scuola, perché le mamme hanno
ormai tutte il velo e molte il niqab (che
lascia scoperti solo gli occhi) e fotografarle
offende i loro uomini. Hamas ha
approvato un pacchetto di 20 leggi a
sfondo “etico-religioso” poi tenute in
sospeso per essere gestite secondo la
convenienza del momento. Sulla foggia
dei jeans da indossare sotto il velo, per
esempio. O sulla separazione tra maschi
e femmine nelle scuole, poi rimandata
per la ferma opposizione delle
scuole cristiane. Ma ora ripartono le lezioni,
che accadrà?
L’islamizzazione, come si vede, tocca
la comunità cristiana. Dieci anni fa i
cristiani erano 3 mila, oggi sono 1.300.
Pochi i cattolici, circa 300, ma attivissimi.
La parrocchia della Sacra Famiglia,
gestita dal parroco don Jorge Hernandez
e dal viceparroco don Mario Da Silva,
è una fucina: la scuola, le suore
dell’Istituto Serve del Signore della Vergine
di Matarà che fanno animazione
con i bambini, le suore di Madre Teresa
che assistono 28 bambini handicappati
e un gruppo di anziani soli, le attività
con i ragazzi (prima si facevano anche
gite e piccoli campeggi, poi vietati), l’assistenza
ai poveri e alle famiglie.
E gli
ospedali, le cliniche, le scuole, tutto ciò
che i cristiani di Gaza fanno a beneficio,
se si guardano i numeri, soprattutto dei
fratelli musulmani.
Cristiani rispettati, certo, ma sempre
più prigionieri del contesto. Dalle altre
città si radunano a Gaza City, poi cercano
di emigrare. Pensiamo alle suore:
Israele ha chiesto loro di abbandonare la
parrocchia, cosa che don Jorge, essendo
impossibile spostare i bambini malati e
gli anziani, ha rifiutato.
Poi ha bombardato
la casa di fronte, dove abitava un
pezzo grosso di Hamas. Sempre Israele,
per non sbagliare, vieta ai cristiani tra i
16 e i 35 anni di varcare il confine per visitare
i parenti o i Luoghi Santi. Quanto
si può resistere senza la pace?