Entrare a Gaza significa farsi largo tra le apparenze. Accedendovi da Nord, dal valico israeliano di Eretz (da cui si può transitare solo muniti di un permesso difficile da ottenere), una volta superati i controlli dei documenti, un lungo corridoio asettico privo di finestre ma pieno di telecamere, i maxi tornelli e una grande porta automatica, sbarcati in terra palestinese tutto sembra ordinato, pulito, quasi normale. Ma in quel chilometro che collega il terminal israeliano alla prima dogana palestinese, un tempo, sorgeva la zona industriale, eliminata definitivamente nell'ultima operazione militare israeliana “Piombo fuso”. Oggi restano solo campi e una lunga lingua di asfalto sotto una tettoia recintata che lentamente conduce nella Striscia.
Al posto dei facchini, che per una decina di shekel si offrivano di portare le valigie a chi entrava e soprattutto a quei pochi che uscivano da Gaza, ora c'è un “moderno” tuc tuc, una specie di Ape cross, che imperversa per le strade palestinesi. Tanto che soprattutto alle porte della capitale, Gaza city, capita di trovare asini abbandonati, “motore” fino a poco prima dei carretti, il mezzo di trasporto più diffuso tra il milione e mezzo di abitanti di questo fazzoletto di terra.
Peccato che il carburante per i tuc tuc, così come per i generatori e l'unica centrale elettrica di Gaza, da un mese a questa parte sia diventato praticamente e così appena superata la seconda dogana di Hamas, si incontrano file chilometriche di macchine in attesa di fare rifornimento. “Ci ho messo 4 ore e mezza stamattina per fare benzina”, racconta Mohammad, che di professione fa il tassista. “Sei stato fortunato”, gli replica Sami, e non lo sta prendendo in giro.
Le strade di Gaza city sono piene di gente all'ora di pranzo: donne che fanno la spesa e soprattutto studenti. “Sono finite le prime lezioni", spiegano: "Le scuole non bastano e allora si fa a turni”. Ma anche questa è calma appartente. I raid israeliani e il lancio di razzi dalla Striscia sul Sud di Israele sono come l'energia elettrica, a cicli alternati.
Dal 9 al 13 marzo, dopo che l'esercito israeliano ha ucciso in un'esecuzione mirata lo sceicco Zuheir al-Kaisyin, presunto responsabile degli attentati di agosto a Eilat, si sono registrati due feriti israeliani e ventisei vittime palestinesi, tra cui due studenti di 12 e 15 anni, che stavano tornando proprio da scuola.
I palazzi bombardati durante l'operazione militare israeliana Piombo fuso, che provocò la morte nel dicembre del 2008 di oltre 1.400 palestinesi e 13 israeliani, sono stati ricostruiti e per le vie della capitale sono numerosissimi i cantieri. Ma basta uscire da Gaza City e avventurarsi per le vie dei campi profughi che costellano la Striscia per trovare bambini scalzi e una povertà rimasta invariata negli anni.
E' la normalità l'apparenza più grande da comprendere a Gaza. Quella dei droni sulla testa e i rumori notturni della guerra, ciclica come il mare che si arrabbia e subito si placa.
Nella Striscia di Gaza è ormai emergenza energetica. E dopo un mese di blackout continui, energia elettrica a singhiozzo e code infinite ai distributori, ci sarebbe anche una prima vittima provocata dalla mancanza di carburante. Un uomo di Gaza avrebbe dichiarato all'agenzia stampa Ap, che domenica scorsa il suo bambino di 5 mesi, affetto da disturbi linfatici, è morto dopo che il generatore che alimentava il suo respiratore è rimasto a corto di carburante.
Carburante: già, perchè benzina e soprattutto gasolio, necessario per far funzionare i generatori di cui è tempestata la Striscia e l'unica centrale elettrica di Gaza, da un mese a questa parte entrano col contagocce, col risultato che la centrale è praticamente ferma e l'energia viene distribuita a turni, con blackout della durata anche di 18 ore.
Più di un anno fa, il governo di Gaza ha deciso di far funzionare la centrale solo con il carburante di contrabbando dall'Egitto, invece di comprare il più costoso combustibile israeliano, come aveva fatto fino a quel momento. Ma l'Egitto ha iniziato a tagliare le forniture, avendo a che fare lui stesso con problemi di carburante.
Alla base ci sarebbero, da un lato, tensioni tra Hamas, che governa Gaza, e l'Anp, che governa in Cisgiordania e gestisce i fondi dei donatori stranieri per l'acquisto di carburante. E dall'altro lato, disaccordi con il nuovo governo egiziano.
Ma i giochi politici si riflettono soprattutto sulla vita delle persone e oltre a fabbriche bloccate, negozi e uffici in tilt e generatori fuori uso, si rischia anche l'emergenza sanitaria e ambientale. Decine di ambulanze sono già ferme e gli ospedali, con i loro generatori, sono messi a dura prova.
"La mancanza di energia elettrica sta creando seri problemi al nostro lavoro", racconta il dottor Aghar Elrayess, che lavora in una clinica ginecologica: "I blackout continui non ci permettono di usare la nostra apparecchiatura e molte pazienti, che dopo la terapia non dovrebbero fare sforzi, rischiano di perdere la sola possibilità di avere un figlio, visto che gli ascensori non vanno e devono salire numerosi piani di scale".
Per mancanza di carburante, anche le pompe delle fognature non funzionano e gli scarichi finiscono in mare, peggiorando così la qualità delle acque già inquinate.
L'Onu e la Ue si stanno muovendo per far sì che la situazione migliori, ma il buio di Gaza sembra destinato a durare, rischiando di offuscare anche Hamas. Secondo un recente sondaggio dell'agenzia palestinese Maan News, il 48% degli abitanti della Striscia accusa il Governo dell'emergenza energeticaMentre Gaza continua a essere un campo di battaglia, con cicli di raid israeliani e lanci di razzi dalla Striscia sul sud di Israele, le forze politiche palestinesi sono impegnate (e impantanate) nel processo di riconciliazione. Un processo ripartito poco più di un anno fa, grazie ai giovani della cosiddetta “primavera palestinese”. Ne è convinta Paola Caridi, analista di Hamas ed esperta della Striscia.
“Quello che è successo a Gaza City, come a Ramallah, il 15 marzo del 2011 – spiega - fa parte delle rivoluzioni cha hanno preso avvio nel dicembre del 2010 in Tunisia e poi in Egitto e che si sono propagate in tutta la regione”.
Il 15 marzo migliaia di giovani di Gaza scesero per strada, chiedendo la fine delle divisioni politiche tra Fatah e Hamas. Come in Tunisia ed Egitto usarono i social network e la rete per comunicare e sebbene non raggiunsero i numeri dei paesi nordafricani, provocarono una forte reazione della politica, da un lato violenta (a Gaza ci furono arresti e repressioni), dall'altro più “diplomatica”.
“Sia Fatah che Hamas – sostiene Caridi - temettero di poter finire anche loro in quel gioco rivoluzionario che aveva portato alla caduta di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto e da lì si mossero verso la riconciliazione”.
Da allora si sono tenuti diversi colloqui e a Doha, in Qatar, il 6 febbraio scorso, tutte le fazioni politiche palestinesi hanno siglato un accordo di riconcilazione, che prevede la formazione di un governo di unità nazionale guidato da Abu Mazen ed elezioni politiche in data da definirsi.
“Ci sono stati altri incontri dopo Doha – conferma Sami Abu Zouhri, portavoce di Hamas - possiamo dire che le cose stanno andando per il meglio per arrivare alla riconciliazione. Ma non abbiamo ancora definito le date delle elezioni, perchè vogliamo la garanzia internazionale che si facciano a Gerusalemme, perchè Gerusalemme fa parte dell'Autorità nazionale palestinese”.
Ma i problemi non riguardano solo la capitale contesa e il rapporto con Israele. L'accordo di Doha ha scatenato malcontenti dentro Hamas, evidenziando antiche divisioni interne.
“Le primavere arabe hanno inciso sulla struttura di Hamas – continua Caridi - . L'ufficio politico se ne è andato dalla Siria e molti della diaspora hanno dovuto ricollocarsi in altri paesi. La crescita e la vittoria elettorale della fratellanza musulmana in Tunisia ed Egitto sono un altro elemento determinante: Hamas non può non fare parte di questa onda verde del mondo arabo, ma per farne parte deve attuare degli aggiustamenti, diventando una sorta di capitolo palestinese della fratellanza musulmana. Un governo di unità nazionale significa perdere il potere raggiunto in cinque anni a Gaza e questo non sta bene a una parte del movimento, ma tutti si rendono conto che rimanere fuori dall'onda verde farebbe perdere tutto Hamas, anche a Gaza”.




