Fabio Geda
“Quello che mi ha sempre affascinato di don Bosco? Anzitutto il suo essere "uomo del fare" e poi la sua grande intuizione che per educare ci si deve sporcare le mani, stare con i ragazzi, mettersi alla loro altezza. Una fatica che oggi pochi riescono a fare, a partire dal sistema scolastico”.
A dirlo non è uno qualsiasi, ma l’ex-allievo salesiano Fabio Geda, scrittore torinese, una laurea in Scienze della comunicazione, ma poi passato a fare il narratore e l’educatore nei servizi sociali. S’era fatto conoscere al grande pubblico con il fortunato Nel mare ci sono i coccodrilli, che nel 2010 ha ricostruito la vicenda del giovanissimo profugo afgano Enaiatollah Akbari.
Oggi, 31 gennaio, giorno in cui la Chiesa ricorda San Giovanni Bosco, esce il suo nuovo libro “Il demonio ha paura della gente allegra. Di don Bosco, di me e dell’educare” (Solferino).
“Per spiegare la grandezza di don Bosco partirei dall’immagine del “cortile”: il luogo privilegiato dal santo per l’incontro e della relazione tra l’adulto e il ragazzo. Quello che mi ha sempre appassionato del “cortile” è che è una delle risposte più efficaci all’eterno problema che attraversa tutta la storia delle relazioni tra vecchie e nuove generazioni. L’adulto fatica a stare dentro la relazione coi giovani. Preferisce pontificare dalla cattedra, fornire pillole di saggezza, ma senza sporcarsi le mani. San Giovanni Bosco aveva invece capito che per educare si deve sudare, impolverarsi assieme ai ragazzi".
Perché ha definito don Bosco “uomo del fare”?
“Perché più che dire tante parole su di sé e sul proprio metodo educativo, ha agito; s’è, appunto, sporcato le mani, dando l’esempio. Ha scritto tanto, certo, ma su altri argomenti. Sull’educazione, invece, solo un libricino sul “Sistema preventivo”. Mi affascina questa figura di prete che, arrivato a Torino nel 1841, s’è trovato circondato dai tanti migranti d’allora che scendevano dalla Savoia, dalle montagne e dalle campagne e arrivavano nel capoluogo piemontese per fare i mestieri più umili; e ha scelto di vivere la strada assieme a loro. E’ questo esempio e questa coerenza personale che convincono”.
Una lezione, quindi, anche per gli educatori di oggi?
“Non solo di oggi, ma sempre: l’educazione deve passare comunque attraverso il fare più che il dire. E su ciò dovrebbe riflettere un po’ di più la scuola d’oggi".
Cioè?
“Molto spesso le nostre classi sono piene di ragazzini annoiati con professori che parlano al deserto. La pedagogia scolastica dovrebbe utilizzare più le esperienze e le ricerche che le lezioni frontali”.
Forse fare l’educatore oggi è più difficoltoso rispetto al passato?
“Direi di sì. Sperimento quotidianamente una grande fatica degli educatori. Arriverei ad affermare che è difficilissimo, oggi in Italia, farlo per tutta la vita. L’insegnante oggi è carne da cannone; insegnare è mestiere faticosissimo, da prima linea, da trincea. Non è un caso se molti educatori, dopo un po’, mollano e cercano un’altra occupazione meno logorante di questa”
Lei definisce Don Bosco "Santo sociale". Ci spieghi…
“E’ in primis l’etichetta che, noi torinesi, siamo abituati a dare a una serie di figure religiose della nostra città operanti nell’800, da don Giovanni Bosco a Giuseppe Cottolengo, a Francesco Faà di Bruno, che hanno iniziato ad abitare le periferie e operare con la gente in un modo molto particolare, non paternalistico. E, non lo nascondo, questo è l’aspetto della Chiesa che amo di più: la Chiesa sociale degli ultimi, quella che papa Francesco definisce la Chiesa in uscita”.
"Il demonio ha paura della gente allegra". Perché questo titolo?
“E’ una frase di don Bosco che mi è sempre piaciuta. Lui è il fondatore della “Società dell’allegria”. E’ sempre stato poco tollerante di chi si lamentava troppo. L’allegria intesa come “scintilla“, buon combustibile per affrontare le asperità della vita, oserei dire come “ottimismo della volontà”.
Perché affascina ancor oggi la figura di questo sacerdote?
“Credo perché sia percepito come uno di noi, un affabulatore che veniva dalle campagne e, pur avendo fine cultura, che sapeva parlare semplice, spezzare e tradurre il messaggio importante con una battuta, una barzelletta. I giovani d’oggi lo vedono come uno con cui farci volentieri una passeggiata assieme”.