La Lega ha dato il benservito (ma sarà l’ultimo?), a Giancarlo Gentilini, l’ex sindaco-sceriffo di Treviso, idolo del popolo del Carroccio e personaggio simbolo della Lega da vent’anni a questa parte. L’ennesima esternazione del Genty “Razza Piave” stavolta su alcune nomine pilotate dal partito e l’accusa alla Lega di essersi snaturata divenendo un “poltronificio” gli hanno procurato la scomunica del segretario provinciale Dimitri Coin, che ha informato via Bellerio a Milano e dichiarato che la “Lista Gentilini” non sarà più d’appoggio alla Lega. Se non è un’espulsione, che può essere decisa solo dalla segreteria federale, poco ci manca. E’ comunque un ripudio del vecchio padre che avrebbe sbarellato.
Ma lui, come sempre, se n’infischia e tira dritto per la sua strada, rispondendo nel modo colorito che lo ha reso famoso ben oltre i confini della Marca trevigiana. “Me ne sbatto. Sono un leghista del 1994, non ho niente a che fare con questi qua”. A dispetto dei suoi 87 anni, il vecchio Genty non ha perso l’irruenza degli anni migliori: “Espulsione? Mi fanno ridere, mica possono”. E magari anche stavolta la spunterà lui. Un ventennio ininterrotto di “gentilinismo” ha dimostrato che il vecchio alpino sa risalire le chine più impervie.
Non è certo la prima volta che al “bastian contrario” del Carroccio trevigiano si vuole dare il benservito. D’altra parte la Lega, fin dal suo nascere, s’è distinta come movimento epuratore di chi dissente dal “pensiero unico” del capo. Ricordate che fine fecero l’ideologo del movimento Gianfranco Miglio e il fondatore della “Liga Veneta” Franco Rocchetta?
Nel 2011 ci provò a cacciarlo Gian Paolo Gobbo, allora sindaco e segretario regionale del Carroccio, nonché suo ex-delfino. Un divorzio clamoroso tra i due, dopo un sodalizio che aveva portato la Lega a comandare a Ca’ Sugana ininterrottamente per più di tre lustri. L’ex-partner della storica coppia G&G non gliele mandò a dire: “Gentilini non ha mai creduto nella Lega. E oggi attacca i valori del partito perché si vuole accreditare come prossimo sindaco di Treviso. Gentilini leghista? Vorrebbe piuttosto essere un vecchio fascista, e invece è stato un super-democristiano. Altrimenti non avrebbe mai potuto essere assunto e lavorare all'ufficio legale di Cassamarca».
Coma mai tanto livore? Lo sceriffo aveva scaricato le pistole sulla corbelleria geografica che Bossi chiamava “Padania” e sull’ancor più surreale obiettivo politico perseguito dalla Lega d’allora: la secessione. «La Padania non esiste, e parlare di secessione è grottesco», aveva esternato il nostro Genty. Apriti cielo: l’allora senatore del Carroccio, Piergiorgio Stiffoni, a sua volta espulso dal partito, e condannato per peculato, lo ebbe a definire: «Virus tossico interno alla Lega, da cacciare subito». E lui rispose come oggi, sfoderando dal frasario mussoliniano, un altro “Me ne frego”. E, sempre con piglio ducesco, aggiunse: “Sono leghista e ho la gente dalla mia parte, una montagna di voti, il consenso popolare”.
Un consenso che i trevigiani, in effetti, gli conferirono plebiscitariamente per due mandati, dal 1994 al 2003. Non potendo ricandidarsi come sindaco per la terza volta consecutiva, si fece eleggere consigliere (con oltre tremila preferenze) e fece il vicesindaco dal 2003 al 2013. Poi la sconfitta alle ultime amministrative che ha posto fine al ventennio leghista nel capoluogo della Marca. I trevigiani adoravano il suo modo popolare e anticonformista di fare il sindaco: passava ore in mezzo alla gente, con il taccuino in mano per annotare le questioni che gli venivano segnalate, frequentava i bar del centro. Riuscì a scontrarsi con mezzo partito per aver promosso la manifestazione enogastronomica “Ombralonga”, chiusa nel 2008, perché finiva per alimentare il numero degli ubriachi per le vie della città, mentre l’allora presidente della Provincia Luca Zaia si batteva per la sicurezza stradale.
Ma di lui restano soprattutto i gesti muscolari e le sue ricorrenti, imbarazzanti battute razziste contro immigrati e rom. Da qui il soprannome di sindaco “sceriffo” che non ha mai disdegnato, anzi ne andava fiero. Si fece conoscere ordinando la rimozione delle panchine nei giardinetti davanti la stazione, per evitare che vi si sedessero i migranti. La tolleranza nei confronti dei clandestini per lui dovrebbe essere come la farina: ”a doppio zero”. Ha fatto scomodare le telecamere di Al Jazeera quando da prosindaco vietò ogni spazio al coperto ai musulmani per il Ramadan. “Vadano a pregare nei deserti, gli compro i tappeti”, tuonava. E ancora: “A Treviso non vogliamo la casbah, gli immigrati annacquano la nostra civiltà, gli stranieri rovinano la razza Piave, dietro i marocchini c' è una cospirazione bolscevica. E via con altre di queste amenità.
Il suo nome ha fatto il giro d’Italia quanto un giorno usò sinistre onomatopee per i “perdigiorno extracomunitari”: “bisognerebbe vestirli da leprotti e fare pim,pim, pim con il fucile”. Sui rom affermò che andavano “rimandati ai loro paesi di origine”, e che dovevano presentare la dichiarazione dei redditi; e “chi non lo fa, fuori dai piedi”. E ancora « Voglio la rivoluzione nei confronti dei nomadi, degli zingari. Io ho distrutto due campi di nomadi a Treviso. Voglio eliminare i bambini degli zingari che vanno a rubare agli anziani”. E in altra occasione esternò: “Bisogna pulire le strade da tutte queste etnie che distruggono il nostro paese... basta islamici, che tornino ai loro paesi... non voglio vedere consiglieri neri, gialli, marroni, grigi». E via di questo passo. Evitiamo, infine, di citare il frasario condito che usò, a più riprese, per gli omosessuali.
Forse, pronunciati nel dialetto veneto, così dolce e musicale, come ironizzò una volta Marco Paolini, tali aforismi non suonavano così male. Ma per le Procure, dirle in trevisano o in tedesco, cambiava poco al loro contenuto razzista. Così nel 2014 lo sceriffo si beccò una condanna per incitamento all’odio razziale per le frasi razziste da lui pronunciate contro gli extracomunitari durante un comizio del Carroccio tenutosi a Venezia il 14 settembre 2008.
E adesso, dopo tante crociate “anti-tutti eccetto che i trevisani”, s’è scagliato contro la degenerazione dentro la “sua” Lega. Riusciranno, stavolta, a disarcionarlo da cavallo? O come faceva un tizio in una indimenticata reclame del Carosello, Genty ringrazierà la sua “buona stella” di sceriffo che gli regalerà l’ennesima vita? In fin dei conti lui e Salvini si assomigliano più di quanto si pensi. Il “salvinismo” è un po’ figlio del Gentilini-pensiero, dall’abbandono del “ferrovecchio” politico della secessione, alla campagna perennemente a toni bellici contro l’invasione dello straniero. Salvini gli ha un po’ copiato anche l’ostentazione per le divise: Gentilini indossa ogni volta gli riesce il cappello da alpino; il leader del Carroccio porta volentieri le magliette della Polizia. Ma il primo l’alpino lo ha fatto sul serio, il secondo non ci risulta.
Qualche tempo fa l’ex-sindaco spese parole in difesa del suo capo criticato per essersi concesso troppo ai media e per aver posato a petto nudo per un settimanale. Ed estraendo dal cilindro un’altra delle sue ormai proverbiali esclamazioni, rammentò: "Anche Mussolini, nella battaglia del grano era a torso nudo sopra quella che batteva il grano".