Febbraio 2016. Un signore anziano, elegante in dolcevita bianco e giacca color cammello, scavato in volto e con grandi difficoltà a camminare, raggiunge il foyer del Teatro alla Scala. Difficile riconoscere in lui uno dei più amati direttori dal pubblico italiano e mondiale. Difficile, se non per il dolcevita e per l’inconfondibile sorriso. E’ Georges Prêtre: che di lì a poco, concessa un’intervista a una tv, salirà sul podio dell’orchestra, pronta ad accoglierlo con una caldissima, affettuosa ovazione, prima di iniziare le prove di quello che sarà l’ultimo di una infinita serie di concerti e direzioni d’opera alla Scala (la sua prima volta risale al 1966) e in tutte le grandi istituzioni musicali italiane (con particolari legami con l’Accademia di Santa Cecilia, la Fenice di Venezia e le orchestre Rai).
Georges Prêtre si è spento mercoledì 4 gennaio, all’età di 92 anni. Un lutto grave in famiglia, problemi altrettanto gravi di salute e una frattura lo avevano tenuto lontano dal podio, prima dell’attesissimo ritorno del 2016. I familiari che gli sono stati vicini hanno detto – e che sia vero o motivato dal desiderio di perpetuarne un’immagine comunque veritiera poco conta – che ha lasciato il mondo con il suo sorriso. Un sorriso che gli illuminava gli occhi e il viso: e si trasformava in musica. Nato a Waziers, nel Nord della Francia, figlio di un calzolaio, Georges Prêtre era un suonatore di tromba: e, come amava raccontare, scoprì la musica a 7 anni e iniziò a suonare nelle orchestrine jazz, o nei teatrini popolari, cosa che non era ben vista nel mondo della musica dotta e che lo spingeva ad assumere il cognome della madre”.
Studiò con grandi didatti, senza diplomarsi. Poi le sue doti, il suo carisma, la sua capacità unica di suscitare emozioni lo hanno spinto verso una carriera che oggi definiremmo “stellare” e che è iniziata a 22 anni, a Marsiglia. Inutile elencare le orchestre che lo hanno ospitato, i teatri nei quali ha diretto opere (con interpretazioni uniche e assolutamente sublimi nel repertorio francese), le onorificenze ovunque ricevute. Conta solo il plauso di un pubblico che riconosceva in quell’artista – dal fisico possente, prima della decadenza, e dal piglio atletico che l’esercizio della boxe gli aveva forgiato – un demiurgo della musica. Un poeta. Perché quello che la sala percepiva durante le interpretazioni di Georges Prêtre era una dimensione incantata della melodia, un emergere di passioni, sentimenti, sfumature, colori che calavano l’ascoltare in un flusso magico di note.
Il suo “rubato” era proverbiale: riusciva infatti a plasmare il suono di orchestra e cantanti in punta di bacchetta, variando il rigore geometrico dei tempi con ritardandi e accellerandi che il pubblico planetario del Concerto di Capodanno potè ammirare nel 2008 e nel 2010. Cordiale, ironico, affascinante, incontrava i giornalisti accompagnato dalla moglie e da due cagnolini: a una collega che gli rivolse una domanda non documentata rispose amabilmente “signora, ma lei mi confonde con qualcun altro!”. Lui, il più inconfondibile dei musicisti. Aveva bisogno di molte prove: e pur generando un profondo feeling nelle orchestre, otteneva i suoi migliori risultati durante le repliche o le riprese delle produzioni.
Ma come dimenticare il suo Bolero di Ravel, il suo Werther, la sua Carmen (storica quella discografica con la sua grande amica Maria Callas, registrata dopo un lungo periodo di studio)? Un’orchestrale della Scala in occasione di una esecuzione della Prima di Mahler diretta nel suo penultimo concerto milanese disse “questa sera abbiamo suonato come mai, ed abbiamo avuto l’impressione che Georges Prêtre ci abbia salutato per sempre”. In realtà la vita gli ha concesso nel 2016 un’ultima possibilità di dirigere nel “Teatro che mi rende felice”. Ora può dialogare direttamente con Ravel, Debussy, Massenet, Gounod, Poulenc, Puccini. Che lo ringrazieranno.