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martedì 17 settembre 2024
 
Francesco in Terra Santa
 

Geries Khoury: "Arriva un Papa speciale"

22/05/2014  Fondatore a Betlemme del centro studi interreligiosi "L'incontro", Khoury propone la sfida del dialogo anche con il "nemico". E della visita del Papa...

Geries Khoury.
Geries Khoury.

Betlemme,
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«Se tu non ami il tuo nemico, non sei più cristiano. Ma amare non vuol dire accettare ciò che sta facendo. Amare un ebreo significa che bisogna dirgli la verità, che lui sta commettendo un peccato, che se prende la mia casa, lui sta facendo qualcosa contro il Signore. Amarlo è un modo per cercare di farlo tornare, pentire, questo è amore per il nemico». È questa la sfida di Geries Khoury, fondatore e anima del centro studi interreligiosi Al-Liqa (in arabo: Incontro) di Betlemme, e che necessita di una “teologia contestuale”.

«L'idea alla base - spiega - è che la teologia dev'essere calata nel contesto palestinese, che rimane un doloroso ambito di occupazione e di mancanza di pace. Perché anche la teologia viene politicizzata dai nostri fratelli ebrei. Loro dicono: “Questa terra è nostra, perché ce l'ha data Dio”. I nostri fedeli palestinesi ci dicono: “Ma questa Scrittura, la Bibbia, è vostra o no?”. E se tu rispondi sì, loro ti dicono: “Allora la pensate come gli ebrei”. Cosa posso rispondere a chi mi dice: “Come faccio ad amare il mio nemico, se ha ammazzato mio padre, mio fratello, mia moglie?” Dobbiamo aiutare questo popolo a capire la sua fede, il Vecchio Testamento, a capire che cosa significa terra promessa, che cosa significa essere figli di Abramo, padre anche del popolo ebraico. Ecco, questa è la teologia contestuale, una teologia inclusiva, non politicizzata, che cerca di spiegare il vero significato della Parola del Signore, qui, e oggi».

Come si pongono i palestinesi nei confronti dell'imminente visita del Santo Padre?

«Cristiani e musulmani di Palestina vedono con favore qualsiasi pellegrinaggio di un pontefice in Terra Santa, perché il Vaticano e i Santi Padri sono sempre stati vicini al popolo palestinese. Dal punto di  vista politico, il Vaticano ha sempre chiesto uno Stato palestinese, sempre ha voluto il ritorno e il rispetto dei diritti dei profughi. Perciò, ogni volta che un Papa viene, per noi è un momento di gioia».

Di papa Francesco, in particolare, che cosa pensa?

«Francesco per me è un papa speciale. Io lo sento come un concittadino, un nostro prete, un nostro vescovo, un nostro patriarca. Perché la mia Chiesa, la Chiesa palestinese è una Chiesa povera, che soffre, che ha bisogno di essere amata. Però, se da una parte la gente soffre, dall’altra, vive la sua gioia, perché qui c'è la Madre Chiesa, fondata da Gesù Cristo. Francesco viene dall’America Latina; anche lì la Chiesa è povera, ha sofferto, ha lottato contro il capitalismo, contro l’oppressione, contro l’ingiustizia sociale. E, allo stesso tempo, la fede di quelle persone era una sorgente di speranza per un futuro migliore. Papa Francesco per me è un vero seguace di Gesù Cristo. A settembre, quando ha chiesto al mondo di pregare perché non scoppi la guerra in Siria, la sua preghiera e quella di tutti quanti hanno pregato con lui, ha fatto un miracolo. Gli americani hanno rinunciato. Ecco l’intervento del Signore come risposta a quanti hanno pregato per la pace. Il pellegrinaggio di papa Francesco dà forza alla voce profetica dei cristiani in Terra Santa, una voce che da sempre chiede giustizia, pace, amicizia tra i popoli, tra le religioni, le culture. Una voce profetica che ha come fine il bene di tutti nel Medio Oriente e nel mondo».

C’è molta aspettativa tra i palestinesi per quello che il Santo Padre dirà?

«A noi palestinesi, senz’altro il Papa dirà che dobbiamo avere la pace come motto. Ma speriamo anche che si rivolga agli israeliani, dicendo che la loro occupazione, che dura da 66 anni, è un gran peccato, commesso da un popolo esso stesso liberato dall’oppressione (la Pèsach, ovvero la Pasqua ebraica, ricorda l’esodo e la liberazione del popolo israelita dall’Egitto, con duplice significato: passare dalla schiavitù alla liberazione, dal peccato allo stato di grazia, ndr). Basta con questa oppressione, con questo odio, bisogna fare la pace. E poi spero che il Santo Padre si rivolga anche alla comunità internazionale, ad americani ed europei che parlano di pace, ma fanno la guerra, finanziano e forniscono armi ai gruppi estremisti per distruggere questa Chiesa nel Medio Oriente, specialmente nei Paesi arabi.

«Siamo stanchi dell’ipocrisia occidentale, di una politica che distrugge la nostra Chiesa, svuotando il mondo arabo dai cristiani. Il nostro futuro come cristiani nel Medio Oriente dipende da una politica occidentale giusta, che non cerca di demonizzare i musulmani, ma che cerca di aiutare a vivere la molteplicità culturale e religiosa, a vivere come un popolo arabo, cristiani e musulmani assieme. Noi cristiani, piccola minoranza, sappiamo vivere da millenni con un mare di musulmani. Invece, il mondo occidentale non riesce ad avere un rapporto che vada oltre quello economico e militare. Ma questo rapporto non vale niente senza il vero valore umano, senza la dignità dell’uomo. Questa è la vera ricchezza, non i soldi, non le armi».

 

 

 

 

 

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