L'onorevole Gerolamo (Gero) Grassi. deputato del Pd.
«Interrompendo il programma d’acquisto degli F35 non dovremo pagare nessuna penale perché ancora non è stato firmato nessun contratto. Il rischio che corriamo è che ci venga tolta la commessa nella percentuale concordata. E poi, basta con lo spauracchio dei mille posti di lavoro a rischio».
Gero Grassi, cattolico, deputato del Pd e vicepresidente del gruppo alla Camera, anche se non ha firmato la mozione di Sel e Grillini per lo stop agli F-35 fa parte della fronda che all’interno dei democratici si oppone con più forza al loro acquisto: «Se il mio partito non decide la sospensione del programma io voto contro», spiega, «su questo tema il Governo deve sapere che la competenza è del Parlamento e la volontà di quest’ultimo prevale. Il ministro della Difesa Mauro non può fare finta di nulla e dire che non si torna indietro, questa è una posizione irrispettosa e delegittimante verso il Parlamento che è orientato a sospendere l’acquisto e istituire una commissione che nei prossimi sei mesi valuti l’intero pacchetto. Ovviamente, se si fa la commissione di studio bisogna stoppare subito i pagamenti».
- Una sospensiva, insomma.
«Meglio che niente, almeno per ora. L’acquisto degli F-35 è una spesa inutile che non possiamo permetterci in questo momento e soprattutto non servono, come dice qualcuno, a conservare la pace. Per questi motivi mi opporrò a decisioni in netto contrasto con la mia morale e con quello che dovrebbe essere l’orientamento di un Paese cattolico e cristiano».
- Il problema dei posti di lavoro secondo lei non esiste?
«Noi dobbiamo avere la capacità di riconvertire la nostra industria bellica in industria di pace che costruisca non solo aerei da guerra ma anche altri apparecchi puntando sempre sull’alta tecnologia. I posti di lavoro si possono garantire costruendo anche materiale civile. Non possiamo farci condizionare da questo per costruire armi da guerra. Se l’unico criterio diventa l’occupazione allora fabbrichiamo bombe a mano, kalashnikov e carri armati e li esportiamo in tutto il mondo. Non è questa la strada giusta. E poi, il ritorno economico di un’industria bellica non è mai positivo. Noi dobbiamo esportare tecnologia e nelle missioni di pace costruire ospedali e scuole. Oggi per avere la pace bisogna costruirla. E si comincia a costruirla partendo proprio da queste decisioni. L’ho detto anche al ministro della Difesa Mauro che ci vuole un cambiamento culturale. In questo l’Italia è in molto ritardo».
- In che senso?
«Ho proposto al ministro, che mi ha guardato male, che se lui vuole passare alla storia dovrebbe cambiare il nome al suo ministero: non più della Difesa ma della pace come accadde nel Dopoguerra quando si passò dal dicastero della guerra a quello della difesa».
Antonio Sanfrancesco