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martedì 10 settembre 2024
 
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Gessica Notaro: il dolore, la fede e il coraggio dell'Italiana dell'Anno

03/01/2018  Ha subìto la più violenta delle aggressioni: lo sfregio da parte di chi diceva di amarla. Racconta il dolore, la fede, il coraggio che oggi la spingono a esporsi perché il suo dramma non si ripeta

Il volto di Gessica Notaro racconta quello che le è accaduto. Le sue mani, curatissime e intatte, invece, dicono di lei com’è. Dicono della paura che provava e che la teneva all’erta. Dicono della forza che ha avuto la notte del 10 gennaio 2017 in cui l’uomo che aveva amato, Eddy Tavares, oggi condannato in primo grado a 10 e 8 anni per lesioni e stalking, l’ha aggredita gettandole acido in volto. Dicono della prontezza che le ha permesso di restare lucida, a dispetto del dolore, fino a reprimere l’istinto di portarsi le mani al viso, agli occhi, perché non si sciogliessero anche quelle. Dicono della determinazione che le ha impedito di sciogliersi come persona, in quel momento e di lì in poi: ragionare, resistere, volere vivere quando altri si sarebbero arresi all’istinto, umanissimo, di lasciarsi andare. Sono le stesse mani che fino all’istante prima che ci sedessimo a parlare – nel maneggio di San Patrignano – avevano accarezzato amorevoli il muso bianco di Cristòbal, dopo aver tenuto nella cavalcata quotidiana le redini che Gessica ha imparato a governare da bambina. E che, adesso più che mai, sono redini della vita. Da molto prima che Gessica Notaro diventasse Cavaliere della Repubblica per il coraggio del suo impegno civile, a volto scoperto contro la violenza.

Gessica, che cosa le fa dire, come ripete, che questa terribile esperienza ha fatto di lei una persona migliore?

«Se la guardiamo dal punto di vista estetico, materiale, superficiale è chiaro che ho perso delle cose. Ma la mia fede mi dice che niente succede senza un disegno più grande. Anche se mentre lo dico qualcuno penserà che io sia matta, io sento che tutto questo mi ha arricchita spiritualmente».

Mai avuto un attimo di collera con Dio?

«No, mai. Da subito mi sono affidata a Lui. Dopo l’aggressione, mentre andavamo in ospedale mia madre piangeva: se la prendeva con Dio: “Perché ci punisce così? Siamo brave persone”. Lei ha tremato per tre giorni, io pregavo e le dicevo: “Dio è con noi, non ci abbandonerà”. E intanto chiedevo ai medici: “Mi salvate la vista?”. Ma non sapevano rispondere».

Oggi quale sentimento prevale?

«Felicità. Prima non ero felice, adesso lo sono come non ero da tempo: ho una gran voglia di fare, ho la mente sempre in funzione».

È vero che nelle esperienze estreme si scoprono in sé risorse sconosciute?

«Sì. Io ero un po’ ipocondriaca, avevo carattere, ma anche molte paure, negli ultimi anni mi ero un po’ allontanata dalla fede perché stavo con una persona che non credeva e mi succhiava ogni energia. Dopo, invece, mi sono scoperta una forza fisica che non immaginavo».

Non ha mai avuto paura di cavalcare?

«Mai. Cavalco da 18 anni, ho cominciato a dieci. Già da bimba non chiedevo bambole ma cavallini. Da ragazzina mi sentivo bruttina, ho subìto i bulli. Amavo i cavalli perché, come tutti gli animali, non ti giudicano dall’apparenza ma per quello che hai dentro, sentono il carattere. Cavalcare mi ha dato sicurezza».

È vero che questo cavallo ha una storia molto signicativa per lei?

«Sì, molto. Un mio caro amico desiderava un cavallo andaluso. Un altro amico vendeva Cristòbal. Li ho fatti incontrare. Il cavallo mi piaceva così tanto che in cambio della mediazione ho chiesto solo che lo mandassero in addestramento da me. Dopo una lunga trattativa abbiamo concluso e brindato. Uscendo da quella cena sono stata aggredita. L’amico che aveva comprato Cristòbal, scioccato, non se la sentiva più di tenerlo e ha chiesto aiuto all’altro. L’ho saputo due mesi dopo, quando ho scoperto che, intendendosi con uno sguardo, hanno messo ciascuno una parte per regalarlo a me. Quando mi hanno dato i documenti ho scoperto che Cristòbal è nato lo stesso giorno di mio padre. E lo stesso giorno del primo cavallo che mi regalò mio padre. Mi piace pensare che sia un messaggio di papà dal cielo, che sia arrivato per aiutarmi a ritrovare il mio equilibrio».

Che cosa la fa sentire in equilibrio ora?

«Essermi ripresa la vita in mano, sentire di poter contare ancora sulle mie forze. Stare bene con il mio attuale fidanzato nell’arricchimento reciproco, senza bisogno di dipendere come accadeva in quel precedente amore malato».

Qual è stato il momento più difcile di questo anno?

«Dopo l’ospedale, durante il processo cicatriziale acuto. Non riuscivo a mangiare, a parlare. Ero gonfia. Mi si stavano risvegliando i nervi: bastava un filo d’aria per finire stesa dal dolore. Avevo la sensazione costante di essere intrappolata in una maschera di gomma. Non ho mai pensato al suicidio, ma lì ho capito la disperazione di chi ci arriva. Mi ha salvata la fede. Sfinita, ho pregato: “Aiutami, non ce la faccio”. Non so se mi sono autocondizionata, ma da quel giorno non mi sono più lamentata».

In quale momento ha avuto più paura?

«Quando stavo per perdere la vista. Quando mi ha colpita, l’occhio destro si appannava sempre di più, dal sinistro vedevo solo fasci di luce e buio, alternati. Pregavo: “Fammi diventare un mostro, ma lasciami gli occhi”. In quel momento ho promesso che avrei fatto di tutto per aiutare gli altri. Ora dall’occhio destro vedo come prima, per il sinistro aspetto il trapianto di cornea. Nulla è sicuro, ma da dietro la benda da pirata mi dico che devo imparare a guardare non solo con gli occhi. Chiedevo solo la vista. Prima di specchiarmi la prima volta mi dicevo: “Per coerenza devi accettare il tuo volto comunque sia”. E invece mi è rimasta anche la faccia: piano piano comincio a riconoscere la mia fisionomia. Dicono che sono l’unica tra le donne aggredite con l’acido, il rosso che vedete è la mia pelle naturale, non riportata. Mi ripetono: è perché sei giovane, forte, non ti arrendi. Sarà vero, io però non faccio miracoli».

Dallo sguardo degli altri che cosa le arriva?

«Sempre stima. Mai compassione. Davanti alle mie spalle dritte e alla mia testa alta pensano: “Se ce l’ha fatta lei, ce la farò anch’io”».

Che cosa l’ha spinta a mostrarsi subito?

«Avevo promesso di rendermi utile ad altri. Devono vedere dove portano lo stalking e le relazioni malate. Non mi trucco anche se potrei, perché questo rafforza la mia testimonianza».

Le donne aggredite spesso provano vergogna. È capitato anche a lei?

«No, io giro a testa alta. È lui che si deve vergognare. È un bellissimo ragazzo ma ha tanto marcio dentro che io ora lo vedo brutto, grigio».

Urta sentirsi chiedere presto del perdono?

«No, me ne domandano molto i ragazzi delle scuole. All’inizio rispondevo: “Penserà Dio a perdonarlo”. Ora rispondo che al momento non posso: devo dare l’esempio, le donne devono capire che non solo non si può perdonare questo, ma neanche uno schiaffo, neanche la violenza psicologica a volte più grave di quella fisica».

Si sottovaluta la violenza psicologica?

«Prima di gettarmi l’acido non mi aveva mai toccata con un dito. Se gli chiedevo per favore di non fumare in casa mi insultava. Se mi addormentavo mi fumava addosso. Noi donne facciamo l’errore di pensare che siano solo parole, ma chi non ti rispetta nelle piccole cose, non lo fa nei problemi importanti. Chi ti aggredisce verbalmente prima o poi potrebbe farlo fisicamente, spesso è solo questione di tempo».

È vero che tante donne le chiedono aiuto?

«Tantissime».

Che cosa servirebbe?

«Collaboro con l’associazione “Doppia difesa” di Michelle Hunziker e dell’avvocato Giulia Bongiorno: chiediamo un codice rosso, che dia la priorità alle denunce di stalking e di violenza come al pronto soccorso. Troppe donne ancora muoiono dopo una denuncia. Servirebbe più potere alle forze dell’ordine. L’ammonimento e la distanza di sicurezza non servono se nessuno controlla che si rispettino. Dicono che sia un problema di costi: vogliamo fare un confronto tra il rimborso all’Asl della Regione per le spese sostenute per curare me e il costo che sarebbe servito per mettere un braccialetto elettronico a me e uno a lui per controllare che rispettasse la prescrizione di non avvicinarsi?».

Ai costi delle cure non si pensa mai...

«Ho ricevuto donazioni, senza il rimborso della Regione sarebbe difficile affrontare economicamente le cure. Se uno sponsor non mi avesse dato l’attrezzatura non potrei certo permettermi di cavalcare. Ci vorrebbe più assistenza per le vittime di reato, che certo non se la vanno a cercare. Anche se tra molte lettere di incoraggiamento c’è chi mi scrive: “Hai voluto il nero?” “Ti meriti l’acido”».

Si arriva a questo punto?

«Sì, ma se non sono diventata razzista io come possono esserlo altri per me? Lucia Annibali è stata sfregiata da un avvocato riminese. Insulti simili mi sono arrivati quando hanno saputo che lavoravo al delfinario. Come se avessi catturato io animali, anziché occuparmi di quelli nati in cattività».

Quanta fatica ha fatto a recuperare la fiducia nelle persone?

«Ho imparato nel lavoro con gli animali – lo riprenderò in primavera in un’altra città anche se non posso ancora dare dettagli –, che quando hai problemi di aggressività con un animale non vuol dire che tutti siano pericolosi. Se io oggi non mi fidassi più di nessuno farei il gioco di chi mi ha fatto del male perché voleva che non incontrassi nessun altro».

È faticoso essere considerati un simbolo?

«È una responsabilità, ma non mi pesa. Cerco di far passare il messaggio giusto, ma sono umana, so che non potrò salvare il mondo, anche se a volte chiedo troppo a me stessa e avverto la frustrazione di non poter fare di più, ma poi so anche, per esperienza, che la forza per salvarsi viene da dentro, non ci si salva solo appoggiandosi ad altri».

Oggi sente di poter dire: “Ce l’ho fatta”?

«Sì, se il buon Dio mi fa il grande regalo di rendermi l’occhio sinistro, non mi ferma più nessuno».

Teme la sofferenza fisica che deve ancora affrontare?

«Entrare in sala operatoria è sempre stressante: detesto perdere il controllo, l’anestesia generale mi mette ansia. Tra viso e vista, saranno cinque anni di interventi, la paura c’è, ma sono anche curiosa di sapere se e come rivedrò con entrambi gli occhi».

Ha persone da ringraziare?

«Tante, ma non chiedetemi di metterle in ordine. Il centro ustioni Bufalini di Cesena: medici e infermieri di grande professionalità e sensibilità. Gli oculisti di Cesena. Il dottor Cappuccini di Rimini che si sta prendendo cura del mio occhio sinistro con un cuore gigante. Il mio fidanzato, le mie sorelle, mio fratello, gli amici. La mia mamma: una donna molto forte, che si riflette nel mio stato d’animo come in uno specchio, soffre con me e sta bene con me. E il mio papà che non c’è più, che mi ha trasmesso questo “caratteraccio” oggi così utile per reagire».

Foto di Beatrice Mancini

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Il coraggio della miss sfregiata con l'acido
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