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venerdì 13 dicembre 2024
 
Anniversari
 

La storia segreta del Gesù di Pasolini

02/11/2015  L'intellettuale friulano moriva esattamente 40 anni fa. Vogliamo ricordarlo tornando a una delle sue opere più significative, "Il Vangelo secondo Matteo", che di recente l'Osservatore Romano ha definito «forse la migliore opera su Gesù nella storia del cinema». Pochi però sanno come il film maturò nella mente del regista e conoscono il percorso ad ostacoli che dovette affrontare per venire alla luce. Senza la mediazione di un sacerdote, probabilmente, non sarebbe mai arrivato nelle sale...

In occasione del cinquantesimo anniversario della realizzazione de Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, a Matera, dal 19 luglio al 4 novembre, si terrà una mostra il cui intento è quello di restituire la storia e i luoghi del Vangelo attraverso una narrazione audiovisiva, resa possibile grazie al montaggio creativo di documenti, spezzoni di film, fotografie, dipinti, disegni, interviste e materiali vari.

La nascita de Il Vangelo secondo Matteo ha alle spalle una storia insolita, del tutto originale. Abitualmente un film trae origine dal finanziamento produttivo che corona e completa l’elaborazione di un progetto. Nel caso del Vangelo pasoliniano, invece, si trattò di una corsa a ostacoli, nella quale fu necessario scartare una successione continua di difficoltà, dribblare una diffidenza dopo l’altra, aggirare perplessità e rimuovere dubbi a non finire. Un percorso di guerra, cominciato con uno dei soliti itinerari errabondi di Pasolini.

In una di queste fughe, chissà come, chissà perché, un giorno Pasolini arrivò ad Assisi quasi senza accorgersene. A furia di vagabondare, il 2 ottobre 1962 si trovò nei pressi della cittadina umbra e allora si ricordò che circa un mese prima aveva ricevuto un invito per partecipare a un convegno di cineasti indetto dalla Pro Ci- vitate christiana. All’insegna di quel dialogo che anticipava la linea di fondo che avrebbe caratterizzato il Concilio ecumenico Vaticano II, l’organizzazione fondata da don Giovanni Rossi era solita promuovere incontri con uomini di cultura, intellettuali, imprenditori. A quell’invito Pasolini aveva risposto in modo infastidito: «Non posso sopportare i farisei, che usano la religione per i propri interessi. Se verrò da voi, ci verrò a convegno finito».

Ormai era sul posto e tanto valeva tener fede alla promessa. Ma, particolare che non aveva previsto, quel giorno la proverbiale quiete assisana era messa a dura prova dalla presenza di Giovanni XXIII. Caso? Fatalità che anche lo scrittore si trovasse da quelle parti? Sulle prime Pasolini sentì il desiderio di mischiarsi con la folla e di vedere il Papa da vicino,ma subito dopo si rese conto che la sua presenza sarebbe stata una distrazione per molta gente e che lo avrebbero accusato di cercare una facile pubblicità. Se ne andò allora alla Cittadella della Pro Civitate, prese una stanza e si sdraiò sul letto.

«D’istinto allungai la mano al comodino, presi il libro dei Vangeli che c’era nella camera e cominciai a leggerlo dall’inizio, cioè dal primo dei quattro Vangeli, quello secondo Matteo. L’idea di un film sui Vangeli m’era venuta anche altre volte, ma quel film nacque lì, quel giorno, in quelle ore. L’unico dunque al quale potevo dedicare quel film non poteva essere che lui, papa Giovanni», raccontò in seguito Pasolini. Fu dunque là, nello spazio accogliente della Cittadella e in quel silenzio assoluto, che per ingannare il tempo lo scrittore prese meccanicamente fra le mani il Vangelo.

L’incontro con le pagine di Matteo lasciò un segno, perché Pasolini tornò alla Cittadella altre volte. L’idea di un film ispirato al testo evangelico di Matteo era pienamente maturata in lui e, ormai convinto della sua scelta, ne parlò con il fondatore della Pro Civitate, don Giovanni Rossi, che a sua volta incaricò una persona fidata di seguire il progetto.

La persona fidata era Lucio Caruso, giovane volontario della Pro Civitate, origini napoletane, medicochirurgo che negli anni successivi trascorrerà lungo tempo in Africa, sempre pronto a prestare la sua opera disinteressata in zone sconvolte da guerre ed epidemie. Con Lucio Caruso Pasolini intrecciò una copiosa corrispondenza. In una lettera del febbraio ’63 rievocava il giorno in cui aveva preso alloggio alla Cittadella, scherzando fra l’altro sul fatto di aver trovato una copia del Vangelo sul comodino. Una specie di trappola, «un vostro delizioso-diabolico calcolo» ironizzava il poeta, pur sapendo che in ogni camera c’era un Vangelo.

Ma subito dopo aggiungeva: «Da voi, quel giorno, l’ho letto tutto di seguito, come un romanzo. E nella esaltazione della lettura mi è venuta, tra l’altro, l’idea di farne un film. Un’idea che da principio mi è sembrata utopistica e sterile. E invece no...». Passano circa tre mesi. Pasolini ormai ha ben chiara l’idea del film e ne parla con Alfredo Bini, il suo produttore. Bini è un uomo colto, intelligente, che ama il rischio e che proprio per questo accetta la sfida, pur sapendo delle difficoltà a cui va incontro un progetto del genere. Un rischio finanziario, ma ancor di più politico e religioso. Perché, volere o no, Pasolini è stato trascinato più volte in aule di tribunali, perché il suo nome è sinonimo di “scandalo” e perché è un marxista dichiarato. Come reagirà la Chiesa?

Pasolini è ben cosciente del fatto e si rivolge ancora a Lucio Caruso. A partire dal febbraio 1963 le visite di Pasolini alla Cittadella si fanno sempre più frequenti. Nel mese di maggio si rivolge direttamente a don Giovanni Rossi anticipandogli una sua visita per il fine settimana. Con la sceneggiatura appena terminata. Santa L’incontro annunciato si conclude con il progetto di un viaggio in Terra Santa.

Accompagnato da Lucio Caruso e da don Andrea Carraro, un sacerdote della Pro Civitate, esperto biblista, fra il 27 giugno e l’11 luglio 1963 Pasolini effettua un sopralluogo in quella parte di Palestina che fu testimone delle vicende terrene di Gesù Cristo. Il risultato è un documentario in cui le note del diario si intrecciano con lo sguardo dell’anima: Itinerari evangelici in Palestina. Al ritorno in Italia il film comincia a prendere forma. Ma, come previsto, altri problemi insorgono a renderne difficile il cammino. Non problemi finanziari, perché Alfredo Bini ha trovato un coproduttore francese e perché la sezione per il Credito cinematografico della BNL non ha alcuna difficoltà ad aprire i cordoni della borsa di fronte a una proposta del genere, ma per motivi che qualcuno non esita a definire diplomatici, se non addirittura di “opportunità politica”.

In altre parole, senza un sì del Vaticano neppure un ministro socialista (a via della Ferratella, sede del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, sta per insediarsi Achille Corona, firmatario della legge che ancora oggi disciplina la materia cinematografica) si sarebbe preso la briga di scottarsi le dita pur di tirar fuori le castagne dal fuoco. Il problema da risolvere è trovare il terzo lato del triangolo. Il primo è il progetto del film (un Vangelo laico, concepito secondo l’estetica e la poetica di un autore difficile e discusso qual è Pier Paolo Pasolini, ben consapevole di quanto molta gente che lo disprezza e lo detesta farebbe qualsiasi cosa per ostacolare i suoi propositi); il secondo è lo sponsor che lo sostiene e promuove (la Pro Civitate di don Giovanni Rossi, un sant’uomo, ma forse eccessivamente fiducioso nella fondamentale bontà della natura umana). Mancava dunque il terzo lato del triangolo: il mediatore istituzionale fra la Pro Civitate e la Santa Sede.

Insomma, la figura di un fideiussore che garantisse la piena ortodossia dell’operazione facendosene carico e assumendosene tutta la responsabilità. A questo punto entra in scena l’uomo giusto che occupa il posto giusto. L’uomo della Provvidenza, nel caso, è don Francesco Angelicchio. Tre anni prima, nel 1960, don Angelicchio era stato nominato, direttamente da papa Giovanni XXIII, consulente ecclesiastico del Centro cattolico cinematografico. Don Angelicchio era quel che si dice un uomo d’azione. Se così non fosse stato non avrebbe fatto la guerra indossando la divisa dei paracadutisti della Folgore e poi non avrebbe preso parte attiva alla Resistenza.

Ordinato sacerdote a trentaquattro anni, nel 1955, si era lasciato alle spalle l’attività forense, che, come avvocato esperto in diritto cinematografico, lo aveva portato a ricoprire la carica di segretario generale dell’Acec (l’associazione dei cinema parrocchiali, in quegli anni forte di circa 5.000 sale sul territorio nazionale), un posto di responsabilità che gli aveva consentito di manifestare un carattere fermo e volitivo. Nel giro di pochi anni don Angelicchio era riuscito a traghettare la presenza dei cattolici nel cinema da puro momento difensivo a mediazione critica, a partecipazione culturale, ma soprattutto a incontro e dialogo non soltanto con le categorie professionali ma con il mondo laico. Il CCC era dunque l’istituzione naturale che poteva fare da ponte fra un movimento ecclesiale qual è la Pro Civitate christiana e la Santa Sede.

Se il CCC avesse espresso fin da subito un parere negativo sul progetto, con tutta probabilità il film non si sarebbe mai fatto. La strada fu spianata da quel rullo compressore che era don Francesco Angelicchio, che più volte si recò in segreteria di Stato a perorare la causa del film e che avviò una fitta corrispondenza nella quale ribatteva per filo e per segno a tutte le perplessità che di volta in volta si mettevano di traverso. A quel punto lo scrittore-regista gli propose di assumere l’incarico di consulente religioso, ma don Angelicchio respinse l’offerta motivandola con il fatto che, intanto, non era un biblista e poi che non poteva rivestire contemporaneamente il ruolo di controllore e controllato.

In altre parole, come responsabile della commissione di revisione del CCC (che valutava i film e conseguentemente li classificava con il duplice intento di informare i fedeli e di indicare le pellicole che potevano essere presentate nelle sale parrocchiali) non poteva giudicare il proprio operato. Ciò nonostante don Angelicchio e Pasolini continuarono a sentirsi, si scrivevano, si incontravano e si confrontavano spesso.

Terminate le riprese de Il Vangelo secondo Matteo, don Francesco gli fece notare di aver tralasciato i miracoli di Gesù Cristo, a cominciare dal più grande: la risurrezione. Per tutta risposta Pasolini tornò sul set e girò le scene mancanti. Si arrivò così alla presentazione del film all’edizione 1964 della mostra di Venezia, seguita da un’autentica messe di allori fra i quali spiccavano il Gran Premio della giuria, il riconoscimento della critica internazionale e dell’Ocic (Office catholique international du cinéma).

Il sigillo finale di fonte cattolica arrivava poche settimane più tardi, quando – sempre nella sede della Cittadella – una giuria internazionale rappresentativa dei cinque continenti e presieduta da un vescovo (il peruviano Lucien M. Metzinger) assegnava a Il Vangelo secondo Matteo il Gran Premio Ocic, che attribuiva il titolo di miglior film dell’anno in base a una selezione di candidati che nei vari festival internazionali erano stati insigniti del Premio Ocic. Il meglio del meglio, dunque, tra una rosa di film che «per ispirazione e qualità contribuiscono al progresso spirituale e allo sviluppo dei valori umani».

L'articolo è stato pubblicato su Vita Pastorale (numero 7/2014)

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