In occasione del cinquantesimo
anniversario della realizzazione
de Il Vangelo secondo Matteo di
Pier Paolo Pasolini, a Matera,
dal 19 luglio al 4 novembre, si terrà
una mostra il cui intento è quello di
restituire la storia e i luoghi del Vangelo
attraverso una narrazione audiovisiva,
resa possibile grazie al
montaggio creativo di documenti,
spezzoni di film, fotografie, dipinti,
disegni, interviste e materiali vari.
La nascita de Il Vangelo secondo
Matteo ha alle spalle una storia insolita,
del tutto originale. Abitualmente
un film trae origine dal finanziamento
produttivo che corona e completa
l’elaborazione di un progetto.
Nel caso del Vangelo pasoliniano, invece,
si trattò di una corsa a ostacoli,
nella quale fu necessario scartare
una successione continua di difficoltà,
dribblare una diffidenza dopo
l’altra, aggirare perplessità e rimuovere
dubbi a non finire. Un percorso
di guerra, cominciato con uno dei soliti
itinerari errabondi di Pasolini.
In una di queste fughe, chissà come,
chissà perché, un giorno Pasolini
arrivò ad Assisi quasi senza accorgersene.
A furia di vagabondare, il 2 ottobre
1962 si trovò nei pressi della
cittadina umbra e allora si ricordò
che circa un mese prima aveva ricevuto
un invito per partecipare a un convegno
di cineasti indetto dalla Pro Ci-
vitate christiana.
All’insegna di quel
dialogo che anticipava
la linea di fondo
che avrebbe caratterizzato
il Concilio ecumenico
Vaticano II,
l’organizzazione fondata
da don Giovanni Rossi era solita
promuovere incontri con uomini di
cultura, intellettuali, imprenditori. A
quell’invito Pasolini aveva risposto
in modo infastidito: «Non posso sopportare
i farisei, che usano la religione
per i propri interessi. Se verrò da
voi, ci verrò a convegno finito».
Ormai era sul posto e tanto valeva
tener fede alla promessa. Ma,
particolare che non aveva previsto,
quel giorno la proverbiale quiete assisana
era messa a dura prova dalla
presenza di Giovanni XXIII. Caso?
Fatalità che anche lo scrittore si trovasse
da quelle parti?
Sulle prime Pasolini sentì il desiderio
di mischiarsi con la folla e di vedere
il Papa da vicino,ma subito dopo si
rese conto che la sua presenza sarebbe
stata una distrazione
per molta gente e
che lo avrebbero accusato
di cercare una facile
pubblicità. Se ne
andò allora alla Cittadella
della Pro Civitate,
prese una stanza e
si sdraiò sul letto.
«D’istinto allungai
la mano al comodino, presi il libro dei
Vangeli che c’era nella camera e cominciai
a leggerlo dall’inizio, cioè dal
primo dei quattro Vangeli, quello secondo
Matteo. L’idea di un film sui
Vangeli m’era venuta anche altre volte,
ma quel film nacque lì, quel giorno,
in quelle ore. L’unico dunque al
quale potevo dedicare quel film non
poteva essere che lui, papa Giovanni»,
raccontò in seguito Pasolini.
Fu dunque là, nello spazio accogliente
della Cittadella e in quel silenzio
assoluto, che per ingannare il tempo
lo scrittore prese meccanicamente
fra le mani il Vangelo.
L’incontro con
le pagine di Matteo lasciò un segno,
perché Pasolini tornò alla Cittadella altre
volte. L’idea di un film ispirato al
testo evangelico di Matteo era pienamente
maturata in lui e, ormai convinto
della sua scelta, ne parlò con il fondatore
della Pro Civitate, don Giovanni
Rossi, che a sua volta incaricò una
persona fidata di seguire il progetto.
La persona fidata era Lucio Caruso,
giovane volontario della Pro Civitate,
origini napoletane, medicochirurgo
che negli anni successivi
trascorrerà lungo tempo in Africa,
sempre pronto a prestare la sua opera
disinteressata in zone sconvolte
da guerre ed epidemie.
Con Lucio Caruso Pasolini intrecciò
una copiosa corrispondenza. In
una lettera del febbraio ’63 rievocava
il giorno in cui aveva preso alloggio alla
Cittadella, scherzando fra l’altro
sul fatto di aver trovato una copia del
Vangelo sul comodino. Una specie di
trappola, «un vostro delizioso-diabolico
calcolo» ironizzava il poeta, pur sapendo
che in ogni camera c’era un
Vangelo.
Ma subito dopo aggiungeva:
«Da voi, quel giorno, l’ho letto tutto
di seguito, come un romanzo. E nella
esaltazione della lettura mi è venuta,
tra l’altro, l’idea di farne un film.
Un’idea che da principio mi è sembrata
utopistica e sterile. E invece no...».
Passano circa tre mesi. Pasolini ormai
ha ben chiara l’idea del film e ne
parla con Alfredo Bini, il suo produttore.
Bini è un uomo colto, intelligente,
che ama il rischio e che proprio per
questo accetta la sfida, pur sapendo
delle difficoltà a cui va incontro un
progetto del genere. Un rischio finanziario,
ma ancor di più politico e religioso.
Perché, volere o no, Pasolini è
stato trascinato più volte in aule di tribunali,
perché il suo nome è sinonimo
di “scandalo” e perché è un marxista
dichiarato. Come reagirà la Chiesa?
Pasolini è ben cosciente del fatto e
si rivolge ancora a Lucio Caruso.
A partire dal febbraio 1963 le visite
di Pasolini alla Cittadella si fanno
sempre più frequenti. Nel mese di
maggio si rivolge direttamente a don
Giovanni Rossi anticipandogli una
sua visita per il fine settimana. Con la
sceneggiatura appena terminata. Santa
L’incontro annunciato si conclude
con il progetto di un viaggio in Terra
Santa.
Accompagnato da Lucio Caruso
e da don Andrea Carraro, un sacerdote
della Pro Civitate, esperto biblista,
fra il 27 giugno e l’11 luglio 1963
Pasolini effettua un sopralluogo in
quella parte di Palestina che fu testimone
delle vicende terrene di Gesù
Cristo. Il risultato è un documentario
in cui le note del diario si intrecciano
con lo sguardo dell’anima: Itinerari
evangelici in Palestina.
Al ritorno in Italia il film comincia
a prendere forma. Ma, come
previsto, altri problemi insorgono
a renderne difficile il cammino.
Non problemi finanziari, perché Alfredo
Bini ha trovato un coproduttore
francese e perché la sezione
per il Credito cinematografico della
BNL non ha alcuna difficoltà ad
aprire i cordoni della borsa di fronte
a una proposta del genere, ma
per motivi che qualcuno non esita
a definire diplomatici, se non addirittura
di “opportunità politica”.
In
altre parole, senza un sì del Vaticano
neppure un ministro socialista
(a via della Ferratella, sede del Ministero
del Turismo e dello Spettacolo,
sta per insediarsi Achille Corona,
firmatario della legge che ancora
oggi disciplina la materia cinematografica)
si sarebbe preso la briga
di scottarsi le dita pur di tirar
fuori le castagne dal fuoco.
Il problema da risolvere è trovare
il terzo lato del triangolo. Il primo
è il progetto del film (un Vangelo laico, concepito secondo l’estetica
e la poetica di un autore difficile
e discusso qual è Pier Paolo Pasolini,
ben consapevole di quanto molta
gente che lo disprezza e lo detesta
farebbe qualsiasi cosa per ostacolare
i suoi propositi); il secondo
è lo sponsor che lo sostiene e promuove
(la Pro Civitate di don Giovanni
Rossi, un sant’uomo, ma forse
eccessivamente fiducioso nella
fondamentale bontà della natura
umana). Mancava dunque il terzo
lato del triangolo: il mediatore istituzionale
fra la Pro Civitate e la
Santa Sede.
Insomma, la figura di
un fideiussore che garantisse la piena
ortodossia dell’operazione facendosene
carico e assumendosene
tutta la responsabilità.
A questo punto entra in scena
l’uomo giusto che occupa il posto
giusto. L’uomo della Provvidenza,
nel caso, è don Francesco Angelicchio.
Tre anni prima, nel 1960, don
Angelicchio era stato nominato, direttamente
da papa Giovanni
XXIII, consulente ecclesiastico del
Centro cattolico cinematografico.
Don Angelicchio era quel che si
dice un uomo d’azione. Se così
non fosse stato non avrebbe fatto
la guerra indossando la divisa dei
paracadutisti della Folgore e poi
non avrebbe preso parte attiva alla
Resistenza.
Ordinato sacerdote
a trentaquattro anni, nel 1955, si
era lasciato alle spalle l’attività forense,
che, come avvocato esperto
in diritto cinematografico, lo aveva
portato a ricoprire la carica di
segretario generale dell’Acec (l’associazione
dei cinema parrocchiali,
in quegli anni forte di circa
5.000 sale sul territorio nazionale),
un posto di responsabilità che
gli aveva consentito di manifestare
un carattere fermo e volitivo.
Nel giro di pochi anni don Angelicchio
era riuscito a traghettare la
presenza dei cattolici nel cinema da
puro momento difensivo
a mediazione
critica, a partecipazione
culturale,
ma soprattutto a incontro
e dialogo
non soltanto con le
categorie professionali
ma con il mondo
laico.
Il CCC era dunque
l’istituzione naturale
che poteva fare
da ponte fra un
movimento ecclesiale
qual è la Pro Civitate
christiana e la
Santa Sede.
Se il
CCC avesse espresso fin da subito
un parere negativo sul progetto,
con tutta probabilità il film non si
sarebbe mai fatto. La strada fu
spianata da quel rullo compressore
che era don Francesco Angelicchio,
che più volte si recò in segreteria
di Stato a perorare la causa
del film e che avviò una fitta corrispondenza
nella quale ribatteva
per filo e per segno a tutte le perplessità
che di volta in volta si mettevano
di traverso.
A quel punto lo scrittore-regista
gli propose di assumere l’incarico
di consulente religioso, ma don Angelicchio
respinse l’offerta motivandola
con il fatto che, intanto,
non era un biblista e poi che non
poteva rivestire contemporaneamente
il ruolo di controllore e controllato.
In altre parole, come responsabile
della commissione di revisione
del CCC (che valutava i
film e conseguentemente li classificava
con il duplice intento di informare
i fedeli e di indicare le pellicole
che potevano essere presentate
nelle sale parrocchiali) non poteva
giudicare il proprio operato. Ciò
nonostante don Angelicchio e Pasolini
continuarono a sentirsi, si
scrivevano, si incontravano e si
confrontavano spesso.
Terminate
le riprese de Il Vangelo secondo
Matteo, don Francesco gli fece notare
di aver tralasciato i miracoli
di Gesù Cristo, a cominciare dal
più grande: la risurrezione. Per tutta
risposta Pasolini tornò sul set e
girò le scene mancanti.
Si arrivò così alla presentazione
del film all’edizione 1964 della mostra
di Venezia, seguita da un’autentica
messe di allori fra i quali spiccavano
il Gran Premio
della giuria, il riconoscimento
della critica
internazionale e
dell’Ocic (Office catholique
international
du cinéma).
Il sigillo finale di
fonte cattolica arrivava
poche settimane
più tardi, quando
– sempre nella sede
della Cittadella –
una giuria internazionale
rappresentativa
dei cinque continenti
e presieduta
da un vescovo (il peruviano
Lucien M. Metzinger) assegnava
a Il Vangelo secondo Matteo
il Gran Premio Ocic, che attribuiva
il titolo di miglior film
dell’anno in base a una selezione
di candidati che nei vari festival internazionali
erano stati insigniti
del Premio Ocic. Il meglio del meglio,
dunque, tra una rosa di film
che «per ispirazione e qualità contribuiscono
al progresso spirituale
e allo sviluppo dei valori umani».
L'articolo è stato pubblicato su Vita Pastorale (numero 7/2014)