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lunedì 29 maggio 2023
 
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Giacomo Galanda: «La Chiesa? Per me è casa»

29/11/2018  «La fede mi ha aiutato nelle scelte e mi fa sentire protetto», dice l’ex capitano della Nazionale di pallacanestro. «Credo anche nella “Chiesa in uscita”: la vita dei cristiani non si esaurisce nell’intimo»

Il carisma è un concetto solitamente fatto di dettagli: uno sguardo intenso, una dialettica convincente, un portamento risoluto. Nel caso di Giacomo “Gek” Galanda è molto di più: è una filosofia di vita, un modo di essere che prende corpo nei palazzetti dello sport, quando l’arbitro fischia e la palla passa velocemente da una mano all’altra.  

È stato così negli anni della sua carriera, quando da capitano della Nazionale di basket ha condotto per ben due volte la squadra alle Olimpiadi, ed è rimasta tale ancora oggi, nella sua nuova veste di consigliere della Federazione italiana pallacanestro, con delega ai progetti scuola per il settore giovanile. Quando infatti Galanda organizza i campi estivi o dei corsi per i bambini non si limita a parlare: scende in campo insieme ai pargoletti, sudandosi la loro stima. Allo stesso modo, lo scorso settembre, ha accettato l’invito dei Francescani per raccontare, nel corso del festival Tu sei bellezza, le ragioni per cui da sportivo non ha mai ceduto alle lusinghe delle droghe.

Si è quindi presentato nella piazza più frequentata dai ragazzi bolognesi (nonché dagli spacciatori della zona), in una serata particolarmente gelida di fine estate, mettendosi in gioco. Esattamente come faceva in partita. E forse è questo il segreto di qualsivoglia pastorale giovanile: un carisma fatto di sudore e scelte difficili, desiderio e silenziosa determinazione, in una dialettica che non può risolversi in un singolo dettaglio carismatico.

Come ci è finito il capitano della Nazionale di basket in mezzo ai Francescani?

«Li stimo da sempre: mio padre è devoto a san Francesco e il Santo di Assisi ha finito per fare parte della mia vita. Quando andavo a scuola passavo spesso di fronte alla chiesa di Udine a lui dedicata e alcuni miei amici di Firenze mi hanno regalato il Tau. Ultimamente lo porto sempre con me: è un segno che mi piace perché è una croce fatta di legno, con un laccio di cuoio. Mi ricorda la semplicità, l’umiltà: ho sempre pensato che non è necessario cercare chissà dove la Bellezza. È già presente nella natura, nelle cose semplici: sta a noi andare a scoprirla indagando in profondità».

Il che, forse, non è più così facile oggigiorno…

«A volte mi ritrovo a pensare che la dannazione del nostro tempo sia la superficialità: è diventato tutto così veloce, le informazioni si susseguono una dopo l’altra impedendoci di apprezzare i singoli attimi della vita. C’è un appiattimento generale e questo è un danno anche nello sport: se sei superficiale non puoi allenarti nella maniera corretta, perché la cura dei dettagli è fondamentale».

Lo sport insegna che, per vincere, non basta sfruttare i punti deboli dell’avversario: bisogna prima di tutto conoscere se stessi, i propri limiti e i punti di forza. Qual è la parte difficile di questo guardarsi dentro?

«La parte più complessa è proprio compiere questo passo indietro: vedere i propri difetti, accoglierli, e mostrarli ai tuoi compagni di squadra. Non è facile perché implica un atto di fiducia verso di loro. Inoltre, a tua volta devi saper vedere e accettare i difetti degli altri compagni. Solo così si può migliorare. Ripeto, non è semplice anche perché nella pallacanestro serve anche un po’ di presunzione: statisticamente un pallone può andare a canestro solo il 50% delle volte. Un buon tiratore è colui che ha la presunzione di poter contare su quel 50%».

Oltre alla devozione a san Francesco, la fede è stata una costante nella sua vita?

«Sono sicuramente vicino alla fede e la religione mi ha aiutato a essere determinato nelle mie scelte. Durante la mia carriera sportiva ho anche attraversato dei momenti di difficoltà: mentirei se dicessi che li ho superati affidandomi alla religione, perché non è andata così, però la fede mi faceva sentire protetto. Per me Chiesa, in fondo, è sempre stata Casa, come ricorda anche la radice etimologica della parola. Sebbene non riuscissi ad andare a Messa tutte le domeniche, mi era comunque chiaro che fosse importante avere un luogo di riferimento. Allo stesso tempo, credo molto nella “Chiesa in uscita”: la nostra vita di cristiani non si esaurisce in casa, così come le buone azioni non vanno fatte solo in presenza di altri».

Chi è stato, per lei, Casa e dunque Chiesa?

«Sicuramente la mia famiglia, a cominciare dai nonni. Li ricordo ancora con molta tenerezza: mia nonna, pur non avendo un carattere facilissimo, sapeva trovare la bellezza anche in un bicchiere rotto, mentre mio nonno era un uomo di poche parole, un gran lavoratore, che si sacrificava per i suoi dipendenti. Era estremamente onesto: i conti dovevano sempre quadrare, senza sotterfugi. Inoltre anche se aveva vissuto la Guerra mondiale e visto il campo di concentramento di Dachau, si sforzava di raccontarci solo gli aspetti belli di quegli anni, come le amicizie che aveva maturato: voleva proteggerci. A loro volta, anche i miei genitori hanno questo talento di saper dare il valore alle cose. Ogni volta che guardo la mia famiglia capisco che quello che conta non sono le imprese straordinarie, ma i valori che ti vengono trasmessi e che non possono essere traditi».

Lei è stato Il capitano, per definizione, della pallacanestro italiana. Ora insegna ai bambini. Cosa vuol dire essere leader?

«Il leader è colui che crea non degli “yes man”, ma altri leader. Per questo, quando vado dai giovani non racconto mai la mia storia o i miei successi: quella è una cosa che lascio agli altri, io sono lì per aiutare loro, per migliorarli. La chiave è dare un esempio positivo: non a caso quello che di solito rimane impresso ai ragazzi non è il mio discorso ma la partita giocata insieme. Scendo spesso in campo con loro per fare vedere, nella pratica, cosa funziona e dove possono migliorarsi».

Da giocatore non ha mai ceduto alle lusinghe della Nba. Una volta ritiratosi, oltre ad accettare la delega per il settore giovanile, ha anche stretto collaborazioni con i suoi ex sponsor. Sbaglio o le sue scelte sono mosse da un profondo senso di gratitudine?

«Sono state scelte spontanee, fatte quasi per inerzia: in fondo la fortuna è un po’ come la ricchezza. Se non la condividi, non serve a nulla».

Il CAMPIONE. AD ATENE 2004 VINSE L’ARGENTO

Tre scudetti, una medaglia d’oro agli Europei del 1999, un argento nelle Olimpiadi 2004, un altro argento agli Europei del 1997, una Coppa Italia e due Supercoppe italiane: sono solo i principali successi di Giacomo Galanda, ex capitano della Nazionale di basket. Nato nel 1975, ala-pivot di 210 centimetri, Galanda ha giocato nella Pallacanestro Varese, nella Fortitudo Bologna (2000), nella Mens Sana Siena (2004) e nella Giorgio Tesi Group Pistoia (2011). Si è ritirato nel 2014. Dal 2017 è consigliere federale della Federazione italiana pallacanestro e da giugno 2018 è entrato nel Consiglio di amministrazione del Pistoia Basket 2000. Vive a Pistoia con la moglie e i due figli.

 
 
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