Giacomo Poretti in una scena dello spettacolo
L’anima. E dunque: il bene e il male. L’amicizia. La libertà. L’amore. Dio. Si parla di questo con l'attore Giacomo Poretti, Giacomino anche per l’anagrafe di Villa Cortese, Milano, dov’è nato il 26 aprile 1956, il 33,3 per cento del famoso trio comico con Aldo e Giovanni.
Ma è vero che vi sciogliete?
«No. Dopo 25 anni ci siamo presi una vacanza. Il prossimo anno torniamo insieme con un nuovo film».
Giacomo Poretti fino al 25 novembre è in scena al Teatro Leonardo di Milano con il suo spettacolo Fare un’anima (regia di Andrea Chiodi, con la collaborazione di Luca Doninelli). Nel 2015 ha scritto Al Paradiso è meglio credere (Mondadori). Collabora da anni con il San Fedele di Milano, il Centro culturale dei Gesuiti. A dicembre, su TV2000 andrà in onda Scarp de’ tenis, un docu-reality sui poveri e i clochard di Milano.
Come l’è venuto in mente di portare l’anima a teatro?
«Mi frullava nella testa da un po’, precisamente dal 14 dicembre 2006, quando nacque mio figlio Emanuele. Venne in ospedale padre Eugenio Bruno, per vent’anni direttore del Centro San Fedele e mio amico, e disse a me e mia moglie: “Ah bene. Avete fatto un corpo, adesso dovete farne anche un’anima”. Poteva essere interpretata in due modi: la solita frase carina di un prete che vuol fare bella figura oppure qualcosa su cui rifletterci su. Ha prevalso la seconda».
Cos’è l’anima per un attore comico che ha riscoperto la fede?
«Quando ho visto la prima ecografia di mio figlio ho pensato di farne un architetto, un avvocato di successo, magari un Pallone d’oro con la maglia dell’Inter. M’interessa sapere se questa parola è ancora viva oggi».
Che risposta s’è dato?
«Nessuna, solo domande. A che serve l’anima nel 2018? Viviamo nell’epoca della tecnologia più sfrontata, i Big Data, gli algoritmi. La tecnologia non solo ti suggerisce degli acquisti ma se ti compri un orologio intelligente ti dice ogni quanti minuti devi alzarti e camminare. Se il nostro algoritmo non ci ha mai consigliato un’anima un motivo ci sarà (ride, ndr)».
Ce l’ha con la tecnologia…
«Ma no. Diciamo che l’algoritmo e l’inglese sono i miei due sparring partner sul palco, i miei nemici dichiarati, mi vendico della loro invadenza e della loro prosopopea».
Aldo, Giovanni e Giacomo torneranno insieme il prossimo anno con un nuovo film (Ansa)
Pure l’inglese?
«La preoccupazione principale dei genitori di oggi è che il loro figlio parli inglese. Abbiamo bisogno di sapere le lingue mica dell’esistenza dell’anima. Però quella parola se ne sta lì, sullo sgabello del cervello, e t’inquieta. Il personaggio in scena fa di tutto per demolirla ma non ci riesce. Le parole hanno bisogno di qualcuno che se ne prenda cura, altrimenti scompaiono e finiscono sui dizionari, i cimiteri delle parole».
“L’essenziale è invisibile agli occhi”, dice la volpe al Piccolo principe.
«Appunto. Nello spettacolo, ad un certo punto, mi rivolgo a un medico per chiedergli se con una Tac si può vedere l’anima. Allora, se non si vede vuol dire che non esiste? E l’amicizia? E l’amore di due genitori? Delle cose più importanti della nostra vita non abbiamo la prova, non si vedono, eppure andiamo avanti, sono lì».
Insomma, l’anima è un disastro.
«Se la fai scorazzare tra i tuoi neuroni sei rovinato. È come fare un acquisto su Amazon dove compri una giacca e ti ritrovi i suggerimenti collegati all’acquisto: la camicia da abbinare, la sciarpa, il pantalone. Vale anche per l’anima. Chi si è interessato di anima si è interessato di resurrezione, si è chiesto se la vita sta dentro un algoritmo, cosa sono l’inferno e il paradiso. Che cosa siamo noi? Siamo miliardi di atomi messi insieme però è una materia strana, che ha coscienza di sé. Com’è possibile questo mistero?».
Ma si ride almeno in questo spettacolo?
«Tantissimo, soprattutto nella prima parte».
Suo figlio l'ha visto?
«Sì. Gli ho chiesto un parere e mi ha risposto: “Bello papi. Però alla fine mi sono addormentato (ride, ndr)».
Padre Eugenio Bruno è l’ispiratore di questo spettacolo. Che tipo era?
«Lo conobbi nel 2000 durante un cineforum al San Fedele dove veniva proiettato il nostro film Chiedimi se sono felice. Diceva cose sorprendenti e anche un po’ strane. Era una persona di una profondità e dolcezza straordinarie. Non poteva che dirla lui quella frase».
Dall’anima al viaggio nei poveri di Milano. Da una materia eterea e ostica ai bisogni concreti degli ultimi raccontati nel docu-reality di TV2000 Scarp de' tenis.
«Ho imparato a non giudicare perché le storie degli uomini sono complicate e fragili. È un mondo difficile, come diceva la canzone. Mi ha sorpreso la grande quantità di persone in difficoltà. In viale Ortles c’è un dormitorio dove ogni notte arrivano più di 500 senzatetto, sbandati, ammalati».
Qual è l’anima di Milano?
«In questo momento sembra una città-Stato, che si governa da sola e non risponde allo logiche del Paese. Quasi un’isola felice. Anche la sofferenza a Milano ha uno tratto di efficienza».
E quella dell’Italia?
«La domanda di riserva?».
Aldo e Giovanni cosa dicono di questo spettacolo?
«Tra di noi c’è un po’ di pudore. Ci siamo presi un anno sabbatico e ognuno ha fatto cose diverse. Sono curioso di sapere cosa ne pensano».