Le parole volano, si sa. Quelle di Gianni Clerici volano più delle al tre: partono da un piccolo universo, delimitato da righe bianche e diviso da una rete, e subito si perdono dietro alla pallina un tempo bianca, oggi giallo fluorescente, raramente arancione come quella accasciata in un angolo: «ci giocavano dei ragazzini, l'ho presa perché mi piaceva il colore». La pallina vola chissà dove: forse va a invischiarsi tra i rami di un cipresso del tennis club di Alassio in cui Clerici gioca va da bambino, forse fa il giro del mondo (Parigi, Londra, New York, Melbourne) nell'orbita del Grande Slam e i pensieri dietro. Le parole seguono un po', poi volano di nuovo via, sulle ali di un falco che passa fuori dalla finestra, infine tor nano, in un momentaneo imperio della volontà, all'occasione del nostro incontro: «Ma parliamo di quello che ti serve: tu volevi Wimbledon, vero?». Sì, i ricordi di Wimbledon, del torneo di tennis più famoso del mondo che comincia il 21 giugno. I ricordi dello ''scriba", come Clerici si autodefinisce dall'inglese scribe, cronista - niente a che vedere con l'antico Egitto-: «Sono lombardo, tennisticamente nato in un club inglese, le mie incursioni linguistiche sono in "anglolombardese"». I ricordi di chi da una vita gira attorno al tennis, giocatore prima, scriba poi, ora anche "tele-cantore" un po' sui generis in fedelissima coppia con Rino Tommasi.
«Non c'è stato solo tennis, ho visto tanti musei e a causa loro ho perso tante partite. Sai come stanca camminare per i musei. Ma erano più importanti i musei delle partite. Ora no, una partita vale una fortuna e i tennisti di oggi non possono più evadere, vivono tutta la vita in quel rettangolo. Non per caso ne escono spesso tormentati. Jennifer Capriati, che ha vinto il primo torneo professionistico a 14 anni, è finita a rubare in un supermercato, prima di ritrovarsi, poverina. Agassi era un mascalzoncello. Ci credo. Appena nato ha aperto gli occhi, ha vagito, e ha visto il suo desti no: una pallina da tennis che gli avevano sospeso sulla culla».
«Ricordo Borg, al momento del ritiro, guatato dai giornalisti americani davanti all'albergo. Tomnmasi e io volammo a Dallas per intervistarlo. Sembrava contento di vederci. Alla fine dell'intervista culminata in una cena ci ha chiesto che cosa doveva fare di sé. Era così smarrito. C'è quasi da aspettarsi che vadano fuori di testa. Oddio, uno che fa un lavoro grigio, sempre uguale, per pochi sol di avrebbe più ragioni di loro».
"Il" Clerici, come lombardamente si autonomina, invece non è rimasto prigioniero dei suoi 6 mila articoli di cronaca tennistica; ha scritto romanzi, opere teatrali e pure una storia monumentale, anche fisicamente, 3 chili e 380 grammi per un libro solo: 500 anni di tennis, in nuova edizione aggiornatissima, a dimostrare che la storia non distingue tra argomenti seri e frivolezze; a ricordare che Lacoste è stato un grande tennista di nome René prima che un coccodrillo di pezza. «Ma Wimbledon, dovevamo parlare di Wimbledon». Appunto, doveva raccontare quel torneo così speciale fatto di palline bianche, di inchini ai duchi di Kent prima di uscire dal campo, di raccattapalle vestiti in verde e viola: «Giorgio Bassani diceva: "Wimbledon per l'appassionato è come un luogo di pellegrinaggio per un credente"». Ma le palline ormai sono gialle da un secolo, l'inchino non è più obbligatorio e il campo centrale verrà coperto, perché la Tv non può permettersi la pioggia e forse nemmeno una pausa per le fragole con la panna. «E in tutto questo si perde non solo Wimbledon, ma anche la sacralità della monarchia britannica».
A lezione di storia
Il mondo, però, non ha tempo per la nostalgia: ha fretta cli produrre giocatori in serie, armati di racchette facili per non turbare i palinsesti.
Lo "scriba" si alza, fruga in una soffitta pigramente disordinata che trasuda cultura e tennis nei dipinti d'epoca, nel mobile del '500 che nei fregi raffigura un signore con una racchettina, nei moderni pins, spillette che evocano tutti i tornei del mondo, nei libri, in una cassetta di racchette del 1834, con rete inclusa, regolarmente ripiegata. Alla fine trova quello che cercava: una racchetta di legno, scordata, di quelle che i trentenni per ultimi hanno intravisto da bambini. La prende e, davanti a una finestra che pare uscita dal pennello di Antonello da Messina, improvvisa una lezione di storia:«La vedi questa racchetta? Aveva 60 centimetri quadri di area, il centro in cui colpire era poco più grande di una pallina, se sbagliavi la mandavi in tribuna». E mima il gesto elegante di un tennis dimenticato.
Il futurismo che uccide
«Ora invece, con i racchettoni grandi 130 centimetri quadri, con il telaio leggero in fibre avveniristiche, puoi colpire dove vuoi, così: ''bang" (mima un colpaccio, una randellata più forte che può) e mandi di là tutto. Hanno creato un mostro». E addio poesia. «Si salvano solo le reincarnazioni di "Big Bill" Tilden, grande giocatore degli anni '20, quelli talmente geniali che vanno oltre lo strumento. Ce ne sono due:lo svizzero Roger Federer e la belga Justine Henin. Io non credevo che nascessero più giocatori così. Quando l'ufficio competente ha definito le misure ho chiesto di definire anche i materiali delle racchette». Non hanno ascoltato, decisi a sacrificare alla furia neofuturistica anche l'ultima traccia di chiaro di luna sopravvissuta nella poesia tennistica. «La risposta del più intelligente è stata: "Non puoi ferma re il progresso". Pensano solo al profitto, hanno studiato business administration, ma non hanno cultura generale: la mercificazione dell'umanità è in corso e così si deve rincorrere e sempre cambiare. Io sono un vecchio conservatore, convinto che si debba cambiare con assoluto rispetto per la qualità, l'umanità, la sacralità di quello che c'è. Uno mi ha detto: "Bisogna fare set di quattro giochi, perché il tennis non si sa mai quando finisce e va contro le regole della Tv". L'ho trattato male». Strano,"il" Clerici è uomo mite e subisce il fascino di quelli che non schiamazzano. «A Roma poche settimane fa è bruciato un albergo, durante il torneo. Andy Roddick, tra i migliori tennisti al mondo, ha usato la sua prestanza per salvare della gente. I cronisti l'hanno incalzato, volevano che raccontasse. Poteva fare l'eroe, invece ha minimizzato in dieci secondi».
C'era una volta la divina.
Nel tentativo di fermarsi sui nomi dei campioni che l'hanno davvero affascinato Clerici si volge indietro: «La divina Susanne Lenglen cui ho dedicato due libri e una commedia. I due primi grandi campioni inglesi, i fratelli Doherty. La prima ragazzina che ha vinto Wimbledon e si è stufata quasi subito, infatti non ne ricordo il nome. Mi affascinano quelli che non ho fatto in tempo a vedere, perché essendo io vecchissimo (esagera, è del '30, ndr.) gli altri li ho visti quasi tutti, sono personaggi storici». Come dire che, fuori dalla nebbia del passato, hanno smesso di essere dèi e sono ridiventati uomini. «Già, ma tu volevi Wimbledon». Ci torna, per raccontare quelli che sui campi in erba, ormai quasi estinti nell'ecosistema tennistico, non hanno infranto primati: «C'era la ragazzona cecoslovacca,Jana Novotna, che piangeva sempre perché arrivava in finale e non vinceva mai. C'è la storia infinita di Tim Henmann, detto "Timbledon", l'ultimo esemplare di tennista inglese che arriva sempre in semifinale». Gli altri, Sampras, Martina Navratilova, McEnroe, Edberg sono nel librone, nella storia. Ma la memoria è una questione privata, che lo scriba custodisce a suo modo in un archivio personale grande quanto la collezione di Wimbledon, un accatastarsi infinito di preziosissimi souvenir, ricordi che si possono toccare per tenere insieme i tanti altri che si possono solo raccontare, con parole che volano sulle ali di un falco.