Ci sono delle amicizie che entrano in punta di piedi nella nostra vita, con quel passo ordinario tipico delle piccole cose: persone in cui ci imbattiamo magari fin da bambini, tra gli scivoli del giardino sotto casa, e che finiscono per crescere al nostro fianco, diventando presenze imprescindibili. E questa, in fondo, è la storia di Gioele Dix: non si può raccontare la vita dell’attore, noto al grande pubblico per i suoi sketch a Zelig, senza passare per quella del suo amico d’infanzia, Renzo Marotta. La loro amicizia è stata decisiva e sui generis: ebreo lui, cattolico e di Comunione e Liberazione Renzo. Un’accoppiata singolare, da cui però è nato un rapporto così «fondante», come riconosce lo stesso Dix, che, quando nel 1986 Renzo è venuto a mancare, il comico si è sentito perso: «È come se avessi vissuto due esistenze: la prima, con il mio grande amico, e la seconda, senza di lui. Sono certo che se oggi Renzo fosse ancora qui, a parlare e ridere con me, sarei un uomo migliore». Per i 30 anni dalla scomparsa dell’amico, Dix ha scritto uno spettacolo ad hoc: Diversi come due gocce d’acqua. L’ha portato in scena quest’estate, al Meeting di Rimini. Più che un elogio funebre, la pièce è stata un sincero omaggio all’amico, dove alla gratitudine e ai ricordi più divertenti si alternavano le domande sul lutto, sulla sua elaborazione e sulla vita «senza Renzo».
Mi perdoni, ma come ci è finito, un ebreo, nel mondo di Comunione e Liberazione?
«Quella tra me e Renzo era un’amicizia dove si condivideva tutto. Intendiamoci, era anche molto improntata allo scherzo, ma nel tempo la fede ha ricoperto un ruolo importante: crescendo, io ho iniziato a pormi delle domande e, a sua volta, Renzo è diventato cattolico praticante, avvicinandosi a Cl. Pur mantenendo lui uno sguardo critico, il Movimento è diventato un’esperienza significativa e questo ha comportato che lo fosse anche per me: quando si è amici, c’è sempre una sorta di osmosi».
Se volessimo usare un termine impegnativo, verrebbe da dire che la vostra amicizia incarna perfettamente il concetto di ecumenismo.
«Renzo è morto nel 1986, a febbraio. Nello stesso anno, il 13 aprile, ci fu la storica visita di papa Giovanni Paolo II alla sinagoga. Qui il Pontefice disse: “Abbiamo delle radici comuni, voi siete i nostri fratelli prediletti. Anzi, in un certo senso si può dire che siete i nostri fratelli maggiori”. Ecco, questa invenzione linguistica spiega molto bene quello che eravamo io e lui: avevamo un’origine comune. Inoltre ci integravamo molto bene proprio in forza delle nostre differenze. Per quel che riguarda la fede, ammiravo molto il suo modo di praticarla: pregava con impegno quotidiano, mentre io ho sempre considerato la religione come una vocazione, un’ispirazione, qualcosa che va cercata nelle cose che fai. Dibattevamo molto perché lui sosteneva (a torto…) che la mia non ritualità mi affrancasse dalla preghiera meccanica».
Ha mai incontrato don Giussani?
«Su insistenza di Renzo, sono andato a sentire una sua predica. Fu bellissima. Rimasti stupito in particolare dal fatto che don Giussani, pur essendo un uomo di azione, dava una grande importanza alla parola. Per esempio, in quella predica, inventò un avverbio che non esisteva: “tentativamente”. Sosteneva che bisognasse “vivere tentativamente”. Su questo avverbio, io e Renzo ci siamo esercitati a lungo per capirne il significato».
Dunque la supremazia dei fatti sulla parola sarebbe sopravvalutata?
«In parte è così: anche le parole hanno un valore. Anzi, un indicatore della profondità dell’amicizia è proprio la sua capacità di verbalizzare la vita. Nello spettacolo che ho fatto al Meeting, a un certo punto ho letto una mia lettera immaginaria dove dico a Renzo che mi manca proprio parlare con lui. Noi infatti provavamo a verbalizzare ciò che eravamo e vivevamo, ciò che cercavamo di costruire “tentativamente”. Tra l’altro i ciellini sono dei chiacchieroni spaventosi… ma anche gli ebrei! Non facciamo altro che parlare e spaccare il capello in quattro (ride, ndr)».
Lei ha scritto addirittura un libro sulla Bibbia: cosa le piace delle Scritture?
«A me piace la Bibbia sporca di sugo, quando è vissuta (in questo senso, tenuta in cucina), e non bollata come un testo per addetti ai lavori. Certo, almeno all’inizio, c’è bisogno di una guida che aiuti a orientarsi nella lettura, ma la Bibbia resta un mare stupendo nel quale pescare».
Recitare vuol dire raccontare l’umanità: cosa l’affascina dell’uomo?
«I miei lavori nascono sempre da grandi relazioni, come quella con Renzo o con mio padre, o dall’affronto di grande tematiche, che declino a modo mio o adattando grandi autori, come Sofocle oppure Omero. Non sono invece mai stato attratto dal chiacchiericcio o dalla politica. Quanto all’umanità, in questo sono comico fino alla radice: mi piace l’inciampo, la stortura. Amo raccontare le fragilità anche perché ho bisogno di ridere delle mie debolezze. È quasi una sorta di medicina. Anche se non risparmio una certa ferocia nella rappresentazione».
Suo nonno ha vissuto la persecuzione fascista. Alla luce della sua storia, che idea si è fatto della speranza?
«Di per sé la speranza mi appare come una sensazione esile e troppo evanescente: rischia di essere un oggetto vuoto, a meno di non “riempirla” con azioni concrete o valori come la fiducia negli altri. Per esempio, mio nonno si è salvato grazie alla sua determinazione ma anche alla fiducia nel prossimo, che gli ha dato una mano decisiva».
CHI È. COMICO, ATTORE E SCRITTORE
Per il grande pubblico Gioele Dix (nome d’arte di David Ottolenghi, nato a Milano il 3 gennaio 1956), è prima di tutto il comico di Zelig che ha inventato la figura dell’“automobilista incazzato”.
In realtà l’artista è molto versatile: all’attivo ha svariati libri, tra cui La Bibbia ha (quasi) sempre ragione
e Quando tutto questo sarà finito. Storia della mia famiglia perseguitata dalle leggi razziali, nonché una serrata attività teatrale. Prossimamente porterà in scena, per la terza volta, Il malato immaginario di Molière, per poi interpretare uno spettacolo tutto suo, incentrato sui primi quattro libri dell’Odissea, dal titolo Vorrei essere figlio di un uomo felice. A novembre sarà poi in tv, nella fiction Io ci sono su Lucia Annibali.