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venerdì 02 giugno 2023
 
LO SCRITTORE SCOMPARSO
 

Giorgio Faletti: io confesso

04/07/2014  L'intervista concessa nel maggio 2008 a Famiglia Cristiana dallo scrittore e cantante astigiano, morto venerdì mattina all'ospedale Molinette di Torino: dal rapporto con Asti, la sua città, al giorno in cui, dopo la laurea, disse al padre di voler fare il cabarettista. La genesi dei suoi best seller. E quello che l'ictus gli ha insegnato...

«Pronto? Mi chiamo Giorgio Faletti». Così, con un pizzico di autoironia, come se fosse uno sconosciuto qualunque, esordisce al telefono lo scrittore e attore piemontese, autore di best seller da oltre tre milioni di copie tradotti nel mondo in 25 lingue, ora in libreria con il quarto libro, la raccolta di racconti Pochi inutili nascondigli (Baldini Castoldi Dalai).

Appuntamento concordato in piazza Alfieri, nel cuore di Asti, la sua città natale. Giorgio Faletti arriva in jeans e scarpe da tennis, cordialissimo e informale, nonostante l’aria un po’ sofferente per un brutto mal di schiena che l’ha piegato. Quattro passi per le vie del centro intervallati da qualche chiacchiera con la gente del posto, vecchie conoscenze che lo fermano, gli chiedono del suo ultimo libro e del prossimo che pubblicherà. «Calma, è appena uscita una mia raccolta di racconti. Al prossimo ci sto lavorando, ma ci vuole meno tempo a leggerli che a scriverli», replica lui.

Qui ad Asti, tutti lo conoscono. Come Mimmo, il barista vicino di casa, che ricambia il suo saluto da dentro il locale. Davanti al bar, lo scrittore si ferma a scambiare due parole con un anziano, rispolverando un po’ di dialetto. «Era un vecchio amico di mio padre», spiega.

Giorgio Faletti è tornato a casa. Si è preso una pausa dall’amata isola d’Elba, che ha eletto a sua fissa dimora ormai da anni, per passare un po’ di tempo nella città della sua famiglia. «Il Piemonte è bellissimo, ma non ha il mare». Un angolo d’Italia che ha sempre ispirato molto dal punto di vista letterario. «Il fatto è che qui la gente è ben disposta ai sapori sanguigni della vita. È una terra con luci e ombre, che unisce un istinto godereccio a un po’ di conservatorismo: il piemontese ride, ma non si sganascia mai».

Lui, per carattere, di piemontese sente di avere molto poco. «Io sono istintivo, irruento, umorale. Non sono uno che valuta. Infatti, qui sono stato considerato un matto, fino a quando non sono stato giudicato un genio. Non esistono le mezze misure».

Ad Asti lo scrittore sta ristrutturando la casa che era di sua madre – un bell’appartamento in pieno centro da cui si gode uno splendido panorama di tutta la città – con sua moglie Roberta, affettuosissima, anche lei astigiana, sposata nel 2003. «Me ne sono andato da qui all’età di 26 anni, per andare a lavorare come cabarettista a Milano». Asti gli andava stretta, non gli è mai mancata, non ne ha mai sentito il richiamo, «ci sono sempre tornato di tanto in tanto per venire a trovare i miei genitori».

Ma ora il passato piemontese riaffiora inevitabile alla mente del narratore in immagini, scene, coloriti racconti di vita. «All’età di 15 anni il mio sogno nel cassetto era diventare scrittore», confessa. Poi arrivò la laurea in Giurisprudenza, e insieme la consapevolezza che quella non sarebbe stata la sua strada. «Io sono il classico laureato per far piacere a papà. Massimo risultato col minimo sforzo. E quando a mio padre dissi, senza alcun preavviso, che volevo fare il cabarettista, lui faceva fatica a dire ai suoi amici che avevo una laurea. Nella sua mentalità fare il comico significava non avere voglia di lavorare».

A New York, o anche solo a Milano, forse sarebbe stato diverso. «Nella fantasia popolare degli astigiani, invece, sono stato prima un drogato, poi uno spacciatore, poi un mantenuto dalle donne. Tutte cose lontane da me anni luce. Ma è lo scotto da pagare se vivi in una piccola città di provincia».

Eppure, i sette lunghi racconti di Pochi inutili nascondigli – storie noir dove il giallo tradizionale lascia spazio al genere fantasy e all’elemento soprannaturale – palpitano del vissuto dello scrittore: la sua esperienza, il suo passato confluiscono qui con forza vivida. In Spugnole, ad esempio, torna il Piemonte, la famiglia, tornano gli amici d’infanzia, la gente del posto: «L’ho ambientato nel paese dove i miei nonni erano mezzadri. Mio nonno materno si chiamava Dafarra, come il protagonista, che anche fisicamente gli assomiglia: alto, asciutto, occhi azzurri e i capelli a spazzola da marine, "all’umberta" come si diceva allora. Glieli tagliava mia nonna».

Due amici fraterni, due artisti

E poi Una gomma e una matita, racconto di apertura: «La storia ha a che fare con la mia amicizia quasi fraterna con due astigiani dotati di un grande talento grafico. Uno lavora a Hollywood come art director, l’altro, Paolo Fresu, è rimasto ad Asti, fa il pittore e ha dipinto alcuni quadri che ho qui a casa mia». Aggiunge: «La capacità di riprodurre il mondo circostante con una matita mi ha sempre affascinato, e ho voluto trasferire questa magia in un racconto».

La ragazza che guardava l’acqua è uno dei racconti ai quali Faletti è più legato: una favola a lieto fine ma ribaltata rispetto alla tradizione, perché qui è il drago – una sorta di mostro di Lochness – a salvare la "principessa". Faletti lo scrisse molto tempo fa, nel 1995-96; fu uno dei racconti che presentò al suo editore per capire se avesse la stoffa dello scrittore di romanzi. Risultato eccellente. «Ho una passione per l’analisi della diversità, sono affascinato dalla pazzia. In questa storia volevo raccontare il diverso nelle vesti di un mostro che osserva dal suo punto di vista gli esseri umani. Del resto, la favola è un genere molto difficile e ha una componente noir: non è semplice diventare Andersen o i fratelli Grimm».

Ma il racconto che rappresenta meglio l’antologia è senza dubbio Graffiti: ritratto crudo, impietoso di Claudio Marino, insegnante di lettere torinese, chiuso nella frustrazione e nella solitudine, nel rifiuto degli affetti, un uomo che ha fatto dell’odio la sua ragione di vita.

Inevitabile ripensare a un altro insegnante, il professor Martinelli, interpretato da Faletti al cinema in Notte prima degli esami. Ma se Martinelli evolve dalla profonda antipatia all’umanità, per Marino non c’è alcuna via di scampo, nessuna possibilità di riscatto. «Il professor Marino incarna quel buio totale dell’animo che i miei racconti rappresentano», spiega l’autore. «In queste sette storie lascio il thriller puro per affrontare il lato oscuro che è in ognuno di noi, e che molti temono. Quando dentro la nostra mente si scatenano certe forze distruttive è difficile scappare, trovare una via di uscita: qualunque nascondiglio, appunto, diventa inutile».

Il gusto del macabro, dell’horror, del torbido sembra una costante della scrittura di Faletti. Ma, assicura lui, non ha nulla a che vedere con la sua personalità. Ciò che scrive non gli fa paura, non lo impressiona. Per lui descrivere il male è un piacere creativo ed è liberatorio, un modo per sfogare quella parte di aggressività, quello spirito guerriero di rivalsa che è in ogni essere umano.

«Un tempo sfogavo l’aggressività nello sport, giocando a tennis. Oggi la faccio fluire nei racconti. Del resto, la realtà è squallida, mai epica. Interpretarla in modo letterario è una strada per esorcizzarla».

Con la morte, elemento ricorrente delle sue storie, Faletti ha dovuto suo malgrado fare i conti pochi anni fa, nel 2002, quando è stato colpito da un ictus cerebrale. «Ho imparato a non rimandare più ciò che posso fare oggi. I nativi americani, molto più di noi, hanno radicata la percezione che la morte è l’unica certezza: loro la rappresentano come un uccello bianco posato sulla spalla di ogni persona».

Quando non lavora, la grande passione di Faletti, oltre allo sport, oggi è la cucina. «Sono un bravo cuoco, a casa cucino io. E ho scoperto che molti scrittori, come il mio amico Jeffrey Deaver, coltivano questa passione. Cucina e scrittura hanno molte affinità: gli ingredienti sono sempre gli stessi; a fare la differenza sono la fantasia e un po’ di tecnica».

La libreria personale di Giorgio Faletti? Contempla prima di tutto i classici dell’umorismo, a partire da Mark Twain, perché, dietro al giallista di oggi, il Faletti comico rimane più vivo che mai. E poi Hemingway, e Gabriel García Márquez. «Ho letto Cent’anni di solitudine solo l’anno scorso, a New York. Ed è una fortuna che non l’abbia fatto prima: un capolavoro del genere mi avrebbe inibito come scrittore».

Ma Faletti può sentirsi a posto con la coscienza. Io uccido è sbarcato negli Stati Uniti, la critica americana ha definito l’autore «un grosso talento emergente». «Certo, quando si pensa a un ermergente ci si aspetta uno di 25 anni. Ma io, con i miei tre romanzi e un libro di racconti, mi sento davvero un ragazzino».

Guai a prendersi troppo sul serio, a scrollarsi di dosso l’autoironia. Si rischia di perdere il contatto con la gente. «Mi piace raccontare storie che appassionino il pubblico. Per me scrivere è un divertimento. E lo faccio conservando sempre un po’ di sano umorismo».

LA CARRIERA / Da Drive In a Sanremo

Giorgio Faletti ha iniziato la carriera di cabarettista nel mitico locale milanese Derby, accanto a Diego Abatantuono, Paolo Rossi, Teo Teocoli. Dalla partecipazione a Drive In, nell’85, sono nati i suoi personaggi più celebri: Vito Catozzo, Carlino, Suor Daliso... Come attore cinematografico ha esordito nell’82. Più di recente, in Cemento armato ha vestito i panni di un vendicativo boss della mala, mentre in Notte prima degli esami era il professor Martinelli. Il suo primo album musicale è Disperato ma non serio del 90; nel 92 ha preso parte per la prima volta al Festival di Sanremo, due anni dopo ha vinto il premio della critica con Signor tenente. Ha scritto canzoni per Mina, Milva, Gigliola Cinquetti, Branduardi.

SCRITTORE DI SUCCESSO

  

Giorgio Faletti è nato ad Asti il 25 novembre del 1950. E' morto venerdì mattina all'età di 63 anni. Dopo essersi dedicato al cabaret, al cinema, alla televisione e alla musica (come autore e interprete), si è cimentato anche con la scrittura narrativa.

Inizialmente ha dato sostanza al personaggio Vito Catozzo in Porco mondo che ciò sotto i piedi. Poi, nel 2002, ha sorpreso critica e pubblico con il suo primo thriller, Io uccido, che ha venduto più di tre milioni e mezzo di copie. Da quel momento ogni due anni uscirà un suo nuovo libro, tutti editi, come il primo, da Baldini Castoldi Dalai: Niente di vero tranne gli occhi nel 2004, Fuori da un evidente destino nel 2006 e l’attuale Pochi inutili nascondigli.

Malato da tempo, era ricoverato nel Reparto di Radioterapia dell'Ospedale delle Molinette e da qualche tempo aveva annullato tutti gli impegni perché non stava bene.


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Cabarettista, cantante, scrittore: un artista poliedrico
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