Lo scrittore è un ragazzo in camicia a quadri e bermuda. O, meglio, lo sembra, perché a 33 anni ragazzi non si dovrebbe essere più. E soprattutto, perché, quando Giorgio Fontana comincia a parlare, rivela strati profondi di maturità. Solo conferme, in verità, di ciò che aveva già rivelato scrivendo, Per legge superiore soprattutto, il romanzo che precede quest’ultimo, in senso anagrafico, ma anche letterario.
Perché Morte di un uomo felice, da poco uscito per Sellerio e in corsa per il Campiello è nato, narrativamente parlando, da una costola appena accennata di Per legge superiore. Giacomo Colnaghi, protagonista del romanzo, muore il giorno della nascita del suo autore, il giorno in cui finisce la storia. Per chi scrive una sfida: significa indagare la finestra cieca di tempo che ciascuno di noi ha e che ne precede di poco l’esperienza.
Perché proprio questo tempo?
«Perché, benché io non sia né mi senta scrittore seriale, quando ho chiuso Per legge superiore ho sentito che mi era rimasto qualcosa ancora da dire. Ma non è che io sia di quelli ossessionati dalla storia degli anni Settanta, sono nato nel 1981, mi sono reso conto di quanto arduo fosse il compito che mi ero dato quando ho cominciato ad affrontarlo».
Anche perché il libro ha due filoni paralleli, la storia del giudice Colnaghi che finirà ucciso dalle Br e quella di suo padre partigiano, che viaggiano parallele?
«Paradossalmente è stato più facile il lavoro per la parte del padre, avevo i racconti di mio nonno, partigiano bianco, non comunista diversamente dal padre di Colnaghi, e fonti non sterminate ma precise relative all’esperienza partigiana di un luogo e di un momento determinato: le fabbriche del saronnese. Riguardo agli anni Settanta, invece, ho sentito tutta la difficoltà della sfida e la scissione “anagrafica”: da una parte sentivo di avere il vantaggio delllo sguardo non contaminato che solo chi non c’era passato poteva avere, un distacco sano rispetto alle testimonianze di entrambe le parti che andavo a studiare. Dall’altra parte sentivo la responsabilità, la consapevolezza del rischio di banalizzare, di tratteggiare immaginette, di perdere la complessità».
La soluzione?
«La solita, mi sono imbarcato in un immane lavoro di ricerca con la paura che non sarebbe mai stato sufficiente».
È un momento difficile per affrontare in un romanzo la storia di un magistrato: è un’altra di quelle cose così poco pacifiche di questi tempi che rischia di incappare nell’emotività. Ci ha pensato?
«Mi sono ficcato un ginepraio che mi ha fatto vivere il mese e mezzo che ha preceduto l’uscita del libro nel terrore di avere sbagliato tutto. Ma non so dire come mai io abbia scelto di raccontare un magistrato. Non sono domande che mi faccio quando scrivo, come non penso a un pubblico preciso. Scrivo e basta, il resto è per i critici, per i lettori».
Un personaggio come bussa?
«Vorrei fare pura narrazione, senza secondi fini, ma capace di porre sulla pagina interrogazioni di un certo respiro incarnandole nella vita dei personaggi. Quando Colnaghi parla con la professoressa della giustizia e di Dio, uno può pensare "Che discorso alto", in realtà Colnaghi vive sulla sua pelle quelle problematiche nel quotidiano».
Colnaghi è un personaggio eroico per la sua storia, ma si direbbe che non abbia le insegne dell’eroe. È così?
«Non volevo che fosse troppo qualunque, ma neanche un supereroe, volevo un uomo scisso, contraddittorio, con problemi quotidiani e attimi di gioia e di curiosità. Ammiro la curiosità nelle persone come interesse verso l’umano».
Non per caso Galli e Alessandrini, giudici veri uccisi dai terroristi, erano persone che cercavano di capire…
«Colnaghi è un buon terzo tra Alessandrini e Galli, giudici a Milano come lui: persone moralmente alte, impegnate dal punto di vista democratico e che nella logica perversa del terrorismo erano percepiti come i migliori e quindi quelli da colpire».
Ha disegnato nel libro la cultura cattolica di Colnaghi, le appartiene?
«Non credo in Dio ma ho avuto una formazione cattolica, come tutti i ragazzini di provincia frequentavo la Chiesa e l’oratorio e il tema della religione mi affascina ancora anche se dal punto di vista del non credente. Ho riversato su Colnaghi le esperienze che avevo avuto da ragazzo. Mi interessava molto da un punto di vista antropologico sociale raccontare quel cattolicesimo, venato quasi di luteranesimo del nord Italia, calato in una realtà di provincia. È stato utile in questo parlare con le persone. Mi interessava dare a Colnaghi una dimensione religiosa forte, per renderlo ancora più complesso. Erano i semi che avevo gettato nelle poche righe, in cui compare in Per legge superiore: sapevo che era simpatico, professionalmente più bravo di Doni, il collega protagonista del precedente libro, appassionato di ciclismo e cattolico».
Possiamo dire che Milano è uno dei protagonisti dei suoi libri?
«Mi fa piacere che si noti, perché tenevo moltissimo a rendere Milano molto più che uno sfondo. Mi è piaciuto ritrarla, al di fuori dei cliché: volevo una Milano estiva, con tratti quasi espressionistici. Quello che mi intristisce è che, se escludiamo Testori e Buzzati, Milano è stata raccontata malissimo».
Non c’è nato, che rapporto ha con Milano?
«Sono nato a Saronno e cresciuto a Caronno Pertusella, all’inizio avevo con Milano un rapporto di odio amore: una città bella e impossibile che non potevo vivere appeso com’ero all’ultimo treno. Una città che sa essere crudele e che non si offre. Se le dai tempo e pazienza però pian piano rilascia la sua ruvida e severa bellezza. Quello che mi piace di Milano è che non bara».
Da dove parte la ricerca per un libro così?
«Sono andato come un esploratore su un’isola, in maniera un po’ anarchica, persino casuale. Sono partito dalle storie dei magistrati uccisi dal terrorismo, poi ho cercato le testimonianze dei familiari delle vittime e il libro bellissimo di Bendetta Tobagi. Lì ho trovato il livello etico di ragionamento che mi serviva. Poi sono passato dall’altra parte: i documenti dei brigatisti, le risoluzioni strategiche delle Br. Letture non piacevoli. Gli archivi del Corriere, Lotta Continua».
Ha rischiato di perdersi?
«Sì, a metà ho pensato di mollare tutto, però poi qualcosa mi ha tirato avanti, a volte basta un capitolo che ti riesce. Mi sono divertito molto con la storia del padre di Colnaghi, calarsi in questi ragazzi operai di quegli anni, una lingua più popolare: quella parte mi ha trascinato».
Di giorno lavora, scrive la sera e sabato e domenica come Primo Levi?
«Non sono così rigoroso, io lavoro in un’agenzia di software, scrivo la sera e nei weekend ma ho dato due grosse botte, in 5-6 giorni di vacanza isolato a casa di mio zio in montagna e poi a capodanno in Liguria: una full immersion che non fa bene né al fisico né alla scrittura, che richiederebbe più energie. Scrivo una decina di pagine e capisco se la storia va, se non va la mollo. Se no comincio a tenere una scaletta che si struttura strada facendo. Cerco di finire una prima stesura in tempi ragionevoli e poi rileggo- riscrivo, rileggo-riscrivo, finché non ne posso più».
Scrittura tormentata?
«Soprattutto figlia dell’insoddisfazione, vorrei dare sempre il massimo in termini di esattezza di scrittura: vorrei coltivare una scrittura essenziale ma non banale. Credo che anche per chi ha grande talento, e io credo di non averlo, sia importante entrare nella propria lingua passo passo. Per me c’è voluto tantissimo. Spero di maturare ancora».
Ha raccontato due magistrati e ha un padre magistrato, è stato complicato averlo come lettore?
«Non sono mai stato attratto dal lavoro di mio padre, ho sempre avuto altri interessi e altre ambizioni. All’inizio Doni, protagonista del primo romanzo, non era un magistrato, era un impiegato statale francese di Montpellier, dove ho vissuto, ma gli mancava qualcosa. Mio padre non è stato fonte di ispirazione ma è stato un lettore utilissimo perché mi ha aiutato a non cascare in strafalcioni procedurali, una questione di dettagli. Fa tutto parte di come intendo il lavoro di ricerca, se scrivessi di un pescatore starei ore con un pescatore professionista. E comunque non diventerò seriale d’ora in poi: i magistrati sono finiti».
La maggiore soddisfazione ricevuta da un lettore?
«Messaggi di persone che hanno vissuto gli anni del terrorismo a cuore duro e hanno riconosciuto le loro confusioni. Io però mi accontento del fatto che uno sia felice mentre legge, contesto l’idea che un libro debba essere per forza un bene morale, può anche essere soltanto il piacere di una bella storia».