Vita a El Bared. Una giovane (foto di Andrea Tomasetto)
Storie invisibili: reportage dai campi del libano tra degrado e speranza
La situazione dei campi profughi palestinesi del Libano che abbiamo visitato, per realizzare il reportage Storie Invisibili (grazie al progetto “Frame Voice Report!” finanziato attraverso il COP – Consorzio delle ONG Piemontesi, con il contributo dell’Unione Europea), è emblematica di ciò che vivono milioni di persone nel mondo.
Da un lato, tanti problemi: contesti urbani degradati, sovraffollamento, fogne a cielo aperto, elettricità poche ore al giorno, immondizia per le strade (il Libano raccoglie solo una volta la settimana), acqua salata nelle tubature domestiche (provate a lavarvi i denti al mattino con acqua salata… o a fare la doccia… o a bagnare le piante). Dall’altro lato, però, persone, famiglie e comunità vivono con tanta dignità : dove ci sono inconvenienti, c’è anche gente che si rimbocca le maniche e trova soluzioni, fa nascere progetti di sviluppo e di cooperazione sociale, crea servizi.
Nei campi vivono migliaia di persone palestinesi e anche siriane che sono state accolte dopo la fuga dalla guerra civile che devasta il loro paese. Certo il Libano è potenzialmente una polveriera 4 milioni e mezzo di abitanti e quasi un milione e mezzo di profughi e rifugiati, tra mille problemi di convivenza tra etnie, religioni, gruppi, tribu, fazioni e il ricordo di una devastante guerra civile vissuta tra il 1975 e il 1990. Ma è esistono storie di riscatto.
È il caso di Beit Aftal Assumoud, un’associazione di palestinesi, che da oltre 40 anni opera nei campi, offrendo ai profughi una sorta di “welfare parallelo”, ovviando a tutti i diritti che il Libano non riesce a dare. In quasi tutti i campi Assumoud ha una suo centro dove ci sono asili, ambulatori medici e dentistici (che offrono visite gratuite a bambini e genitori, anche con il sostegno del COI - Cooperazione Odontoiatrica Onlus, ong di Torino che favorisce la salute dentale delle persone in condizioni di disagio, all’estero e in Italia), scuole di recupero e centri professionali (per dare una prospettiva lavorativa ai giovani), gruppi scout e bande musicali, squadre sportive, centri di aiuto alle famiglie e di “reproductive health”, gruppi di auto aiuto tra donne e anziani, biblioteche, teatro e danza. Se per strada c’è sporco, e degrado, dentro le case le persone portano avanti una vita “normale”. “Facciamo le cose di tutti i giorni – ci dice Mustaf Chihadi, accogliendoci in casa sua al mattino presto, prima del risveglio della figlia Touleen – ci alziamo, facciamo colazione, andiamo a lavorare… mandiamo i figli a scuola, ci preoccupiamo per loro”.In casa di Mustaf, c’è una vaschetta dei pesci, i panni stesi sul balcone, i cereali dentro i vasi di vetro in cucina… Nella sua cameretta, Touleen ha il poster delle principesse Disney (la sua preferita è Belle, ci confessa) e quando la mamma la pettina fa i capircci. “Siamo felici e soddisfatti della nostra vita, di ciò che facciamo – conclude Mustaf – proprio come voi Europei”.
Alcuni ragazzi del centro di El Beddawi (foto di Andrea Tomasetto)
Nella parte "più brutta" del campo di El Bared: «Nei campi è come l'inferno. Ma ci siamo abituati»
“Uno dei problemi dei Campi è l’educazione”, dice Mahmood Jouma, direttore del centro di El Shemali, “ i giovani rischiano di restare senza i mezzi per crescere e migliorarsi, per costruirsi un futuro, e così vivono per strada, preda dei fondamentalisti”. “Molti giovani, dai 14 anni, cominciano a parlare di emigrare…” commenta Hisham Meiari, educatore Assumoud, “Mio fratello è andato in Norvegia! Io non sono andato via perché ho un lavoro qui, che mi piace, ma molti di quelli che provano a andare in Europa, sono quelli che non hanno studiato, non hanno una professione”.
Leila, un’educatrice Assumoud ci accompagna nella parte “più brutta” del campo di El Bared (l’ultimo a subire un attacco da parte dell’esercito, nel 2007; ancora oggi si vedono i segni di quella distruzione) e quando passiamo vicino ad un topo morto in una piazzetta laterale esclama “è la vita, qua!”. A Samir, uno studente del corso di parrucchiere (“ma faccio anche musica e fotografia” tiene a precisare), chiediamo “com’è essere adolescenti e vivere in un campo profughi?”. Si confronta con i compagni di classe e ridendo risponde “It’s like hell!”. È come l’inferno. E come si sopravvive nell’inferno? “We got used to it… we got used!”. Ci siamo abituati. Riham, operatrice sociale (ha un Master in Economia aziendale) del centro El Beddawi, risponde a nome di tutti gli operatori Assumoud: “io potrei andare via dal Campo, ma resto qua per aiutare la gente, la mia comunità”.