Ha cominciato una tournée
d’addio intitolata Merci,
“grazie”. Perché? Juliette
Gréco, la grandissima
cantante francese ottantottenne,
risponde senza
esitazioni: «Ho un corpo
e un cervello, e a un certo
punto il corpo mi impone di dire basta.
Prima di essere obbligata dal mio
fisico, voglio che sia il mio spirito a
decidere, come ho sempre fatto: lascio
il palco ed è una libera scelta, l’ennesima.
Ammetto che sia per me crudele e
terribile lasciare il mio pubblico, ma è
così, non voglio ma devo farlo».
Lei è amata nel mondo intero e in
Italia è una delle icone francesi più
emblematiche: cos’è l’Italia per lei ?
«È e resterà sempre uno dei più
bei Paesi al mondo, amo la sua gente
e i suoi artisti. Personaggi immensi
come Fellini e Rossellini. In Italia
sono belle le strade, ed è bella la gente
che ci cammina».
Lei è stata anche corteggiata da
Hollywood…
«Sì, ma non ho voluto rimanere.
Meglio così. Darryl Zanuck (celebre
produttore cinematografico americano,
ndr) mi conosceva fin troppo bene:
“Non voglio che tu resti a Los Angeles o
a Hollywood, finirei per doverti cercare
in giro per i commissariati”, mi diceva».
Se fosse costretta a stipare i ricordi
della sua carriera in un bagaglio,
cosa porterebbe con sé ?
«Sicuramente la prima volta che
ho cantato davanti a un pubblico. E poi
uno dei ricordi più struggenti è stato
un concerto in Germania, nell’immediato
dopoguerra: ero stata invitata
dalla Filarmonica di Berlino su richiesta
di Von Karajan. Ero commossa fino
alle lacrime. Cantavo davanti ai tedeschi
mentre sfilavano davanti ai miei
occhi le immagini di mia madre e di
mia sorella deportate dai nazisti. Aveva
qualcosa di terribile essere lì».
Che messaggio vorrebbe far passare
alla gioventù di oggi ?
«C’era una volta uno che si chiamava
Gesù ed era solito dire “amatevi
gli uni gli altri, come io vi ho amati”.
Amatevi gli uni gli altri, rispettatevi,
siate comprensivi verso gli altri, sostenetevi,
da sempre è la mia divisa».
Nella sua carriera ha incontrato
personaggi eccezionali: ne cito alcuni,
può dirmi cosa hanno signicato
per lei ? Boris Vian, ad esempio...
«Mi ha insegnato a parlare di nuovo.
Quando l’ho incontrato ero da poco
uscita dalla prigione di Fresnes (detenuta
come prigioniera politica per
sostegno alla Resistenza, ndr). In quel
luogo sinistro la parola signicava insulto,
umiliazione. Sono uscita di lì ed
ero come muta, Boris Vian mi ha ridato
il gusto della parola».
Che ricordo ha di Sartre?
«Se Vian mi ha ridato il piacere
delle parole, Sartre mi ha insegnato la
responsabilità che contengono le cose
che diciamo, mi ha insegnato il peso
di ogni frase, la gravità che sta nel dire
stupidaggini…».
Edith Piaf ?
«Avevo un’ammirazione folle per
lei, era un genio immenso, lei però non
amava me; Edith Piaf non amava le
donne in genere, diciamo pure, le detestava,
le vedeva tutte come possibili
rivali. Consideravo questo atteggiamento
assurdo, perché lei era un’artista
talmente grande da non dover temere
niente e nessuno, eppure… Tutti
questi personaggi che lei ha citato mi
hanno fatto nascere una seconda volta,
l’autentica me stessa è rinata con
loro e grazie a loro».
Un’ultima domanda. Lei ha fatto
milioni di cose straordinarie in 65
anni di carriera: ha qualche rimpianto,
qualche progetto incompiuto che
vorrebbe magari ancora compiere ?
«No, non ho nessun rimpianto e
nessun progetto. Mi rimetto completamente
nelle mani di coloro che mi
amano e mi auguro semplicemente di
vivere serenamente il tempo che mi
sarà concesso».