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sabato 30 settembre 2023
 
 

Donne precarie, mamme mancate

25/07/2011  La ricetta del futuro? Promozione del principio di sussidiarietà e coinvolgimento delle famiglie, associazioni e dell'impresa sociale nell’economia del nostro Paese.

Quando si diventa adulti, oggi? Qual è l’unica scelta considerata e vissuta come realmente irreversibile? Non certo l’entrata del mondo del lavoro, sempre più precario e instabile, non più l’uscita di casa, alla quale capita di far ritorno (vedi al capitolo lavoro precario), men che meno il matrimonio. Oggi il passaggio irreversibile verso l’età adulta avviene con la nascita del primo (e spesso unico) figlio.

Alcuni studi (tra i quali quello di F. Modena e F, Sabatini, I Would if I Could. Precarious Employment and Childbearing Intentions in Italy) iniziano a dimostrare come il lavoro precario costituisca un reale disincentivo alla decisione di mettere al mondo un figlio, almeno fino oltre i 34 anni (dai 34 anni in poi tale disincentivo viene mitigato dalla consapevolezza che l’ “orologio biologico” sta per scadere). E proprio precarie sono, tradizionalmente, le donne: secondo una recente indagine Ires-CGIL, il 75% circa dei contratti precari è “firmato” da donne; solo il 19% delle donne tra 25 e 34 anni con un contratto “flessibile” decide di mettere al mondo un figlio - contro il 31% delle donne con un contratto a tempo indeterminato. Le mamme precarie sono un esercito invisibile: l’INPS non possiede statistiche su quante siano le indennità di maternità pagate alle iscritte alla gestione separata. Non che le madri “a tempo indeterminato” possano dormire sonni tranquilli: secondo l’ISTAT, il 13% delle donne nate dopo il 1973 ha dichiarato di aver dovuto abbandonare il lavoro in seguito a una gravidanza, un esercito di circa 1 milione di donne.

Donne che tornano a fare le casalinghe? “Magari”, risponderebbero in molte, soprattutto quelle con bambini piccoli. Ma non è possibile. Perché un solo reddito, sempre più spesso precario anche quello (si stima che il 72% dei contratti stipulati nel biennio 2009-2010 sia a tempo determinato) non basta più per sopperire alle esigenze di una famiglia, tanto che le famiglie con figli e un percettore di reddito scivolano spesso sotto la soglia di povertà. Eppure, al di là delle statistiche e della mancanza di politiche familiari e di riforme strutturali del mercato del lavoro, tante giovani famiglie scelgono ancora di scommettere sul futuro.

Anna ha 32 anni, lavora da sette in uno studio legale e dal 2006 è iscritta all’Ordine degli Avvocati. Dopo la prima maternità, al suo rientro al lavoro viene accolta con un aut-aut: o mantenere il tempo pieno, che per un avvocato significa rimanere in studio almeno fino all’ora di cena, o a casa. «Al rientro dalla maternità devi dimostrare di avere ancora un cervello», commenta Anna, che è brava, precisa e puntuale nello svolgere il proprio lavoro e che riesce faticosamente a ottenere un part-time, fino a quando non rimane incinta una seconda volta. È una gravidanza a rischio e per i primi due mesi deve rimanere a letto: il titolare dello studio non le paga più lo stipendio, e la cassa previdenziale dell’Ordine non tutela questi casi. Dopo la nascita del secondo figlio Anna chiede di poter rientrare part-time. Inizialmente è un sì, ma appena Anna rimette piede in studio le cose cambiano: «a causa di cambiamenti organizzativi all’interno dello studio» le viene revocato il part-time, con la raccomandazione aggiuntiva di «non fare troppe assenze per le malattie dei figli».

Anna non molla: sa di essere un bravo avvocato, e alla fine riesce a strappare un part-time fino alle 17:30. È solo una mezza vittoria: «La cosa alla quale non volevo rinunciare era veder crescere i miei figli, e ora mi rendo conto che non lo posso fare. D’altronde devo lavorare, il mio stipendio è necessario e non possiamo fare altrimenti. Mi piacerebbe avere altri figli, ma non so se ce la faremo. Come fai a gestire tre figli con un lavoro a tempo pieno? Per non parlare del fatto che dovremmo cambiare casa, perché nel nostro trilocale non ci staremmo…».

«Mio marito mi è stato sempre vicino e se potesse mi direbbe di stare a casa. Ha un lavoro a tempo indeterminato, per il quale ha rinunciato alla professione che gli piaceva davvero, ma che non aveva prospettive di stabilità. Ora però anche lui deve ridefinire il suo percorso professionale, non siamo sicuri che il suo contratto a tempo indeterminato sia comunque un contratto “sicuro”.» «Sto cercando un altro lavoro. Ma quando vai a fare i colloqui ti chiedono se hai figli, e ti chiedono l’orario flessibile, ma in una direzione sola. Una volta sono entrata con il pancione in una filiale di un’agenzia di lavoro temporaneo e l’addetta, dopo avermi squadrato, mi ha detto: ‘Signora, non mi sembra il momento più opportuno per cercare un altro lavoro’».

Intervista a Luigino Bruni, Docente di Economia all’Università di Milano Bicocca, che interverrà il prossimo giovedì 28 luglio al convegno "Famiglia-Lavoro: Nuova Frontiera" organizzato dal Forum delle Associazioni Familiari nella giornata inaugurale del Fiuggi Family Festival.

- Professore, a
ttraversiamo una fase di crisi economica. La famiglia può essere un elemento di sviluppo economico?
«La famiglia è sempre stata la risorsa principale dell’economia, e questa è sia un’affermazione del senso comune, sia una tesi affermata da numerosi economisti. È nella famiglia che si forma e si rigenera la forza-lavoro, ed è ancora la famiglia l’unico soggetto in grado di generare beni capitali essenziali allo sviluppo: beni e capacità che investono sia la sfera delle relazioni, essenziali per poter lavorare insieme agli altri, sia quella della emozioni, necessarie per esempio per affrontare situazioni stressanti. Economisti del calibro di James Heckman, premio Nobel dell’economia, hanno dimostrato con strumenti statistici e misurazioni econometriche di altissimo livello che le capacità di lavorare e gli itinerari di carriera vengono determinati, in modo fondamentale, all’interno della sfera familiare e nei primi anni di vita delle persone. Per non parlare poi della produzione domestica, cioè della ricchezza prodotta dal lavoro familiare: anche in questo caso possiamo fare mille usi di questo dato che ormai è un’informazione statisticamente misurata. Quello che oggi è necessario, per riconoscere che le famiglie sono un elemento determinante di sviluppo, è superare la concezione paternalistica: il riconoscimento della famiglia come soggetto economico non è una concessione, è una questione di giustizia.
 
- In Italia da oltre 15 anni assistiamo a una progressiva “flessibilizzazione” (o “precarizzazione” ) del mercato del lavoro, in una forma che in questi ultimi due anni è diventata preponderante. In che modo il lavoro precario incide sul benessere delle famiglie?
«È necessario affrontare il discorso su due piani. In genere, possiamo affermare che mercati del lavoro estremamente flessibili non hanno creato maggior benessere: abbiamo una riprova di questo nell’analisi dei tassi di benessere soggettivo di nazioni come gli Stati Uniti o l’Inghilterra, nelle quali il mercato del lavoro è estremamente flessibile. Per quanto riguarda la situazione italiana in particolare, la flessibilità (o precarietà) odierna riguarda solo una parte del mercato del lavoro: chi è fuori, mentre chi è dentro gode di molte, forse troppe, protezioni e immunità. In secondo luogo, l’eccessiva precarietà è una malattia che nasce da una precedente malattia. L’economia italiana, a partire dagli anni Sessanta, si è basata su due pilastri: lo Stato (che ancora oggi produce il 57% del PIL italiano) e la famiglia patriarcale. Oggi abbiamo uno Stato eccessivamente presente e una famiglia che non riesce più ad assolvere ai tradizionali compiti di cura. La flessibilità italiana deve dunque fare i conti con un paternalismo di Stato ancora molto diffuso. Per uscirne, è necessario guardare avanti verso la promozione del principio di sussidiarietà in tutte le sue forme, nel coinvolgimento di famiglie, associazioni e impresa sociale nell’economia del nostro Paese. Un lavoro a tempo determinato crea insicurezza e non produce benessere, un lavoro flessibile ma con buone garanzie di continuità genera maggiore impegno e fedeltà, e maggiore produttività. È necessaria una nuova alleanza tra famiglie, mondo imprenditoriale e istituzioni».

- Cosa si sente di dire allora ai giovani di oggi che vogliono fare famiglia in un mercato del lavoro così flessibile?
«Primo, non considerare il proprio titolo di studio come un vincolo, ma piuttosto come un’opportunità. Secondo, non considerare il lavoro intellettuale superiore al lavoro manuale: da una laurea umanistica può venire fuori un bravissimo giardiniere, e di certo il titolo di studio, inteso come patrimonio e accrescimento personale, non va mai perso. Terzo, ricordare che il lavoro non parte dall’offerta, ma dalla domanda: il lavoro è sempre una risposta a un bisogno, a un interesse altrui. Quarto, ma non ultimo, sviluppare la virtù della creatività, essere imprenditori per sé e per gli altri. Questa, credo, è la grande sfida dei giovani di oggi, o almeno dei giovani che vogliono scommettere sul futuro.

Il Forum delle Associazioni Familiari partecipa quest’anno al Fiuggi Family Festival con un evento speciale, una giornata interamente dedicata alla riflessione su lavoro e famiglia. Il Forum vuole porre all’attenzione di tutti coloro che parteciperanno alla giornata inaugurale un tema di notevole attualità: il tema delle relazioni tra vita familiare e vita lavorativa.

Il convegno sfida alcuni dei più classici approcci alla conciliazione famiglia lavoro, e per prima cosa intende porre la questione famiglia-lavoro come una questione di famiglia, non più e non solo come una questione “di genere” o di “pari opportunità”: siamo infatti convinti che un “lavoro buono” incida sul benessere dell’intero nucleo familiare e sulla possibilità che una famiglia realizzi la propria aspirazione a condurre una “vita buona”.   L’attenzione del Forum è inoltre rivolta a una fascia particolare di famiglie, che sono state individuate come famiglie nelle quali la possibilità (o la mancanza) di un “lavoro buono” è particolarmente significativa: ci riferiamo alle giovani famiglie.

Precarietà, bassi redditi, criteri disuguali nell’accesso ai servizi di welfare, costante dipendenza sia economica sia psicologica dai propri genitori sono alcuni dei problemi che le giovani famiglie di oggi devono affrontare. Le sfide delle nuove generazioni reclamano la costruzione di nuove frontiere della conciliazione famiglia-lavoro, nuove culture lavorative e nuovi servizi di cura.

Quali sono le soluzioni possibili?   A questa domanda il convegno della mattina e la tavola rotonda del pomeriggio, con l’intervento di parti sociali e con le conclusioni del Presidente del Forum Francesco Belletti, del Ministro Giovanardi e dei sottosegretari Musumeci (Lavoro e Politiche Sociali) e Roccella (Salute), tenterà di dare una prima risposta.   Il programma dell’evento è disponibile sul sito del Forum Famiglie.

 
 
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