Una moltitudine silenziosa e invisibile, quella dei giovani caregiver nel nostro Paese. Nel 2020 le stime Istat – per gli esperti al ribasso – parlavano di 391 mila persone, pari al 6,6% della popolazione tra i 15 e i 24 anni: il 57% è femmina, l’impegno medio ammonta a 25 ore settimanali. Alcuni di loro hanno accettato di raccontarsi in forma anonima, per proteggere soprattutto l’identità dei loro cari che assistono e supportano da anni, ogni giorno: genitori, nonni, ma anche fratelli e sorelle. Come la ventenne Noemi (nome di fantasia), studentessa in psicologia: da quando è nata la sua sorella minore, oggi quasi dodicenne, ha capito «a cosa andavo incontro». La bambina «ha gravi difficoltà cognitive dalla nascita e soffre di epilessia, fra l’altro. Non rientra in una categoria specifica di disabilità. Ma quando mi abbraccia e mi sorride sembra che tutto il mondo scompaia ed esista solo io». Essere la sorella maggiore, spiega, «mi ha fatto maturare molto velocemente pensando di essere quasi una seconda mamma, sempre con un occhio di riguardo su di lei. Che non è completamente autosufficiente né riesce a stare da sola, quindi per un dovere morale che ho dentro mi sento in colpa quando non sono in casa con lei. Vuole ballare e cantare con me, ha bisogno di compagnia».
Noemi fa i turni con l’altra sorella 18enne, sua madre (i genitori sono separati) e la babysitter. «Ci aiutano un po’ il nonno e la zia materna, prendendola a scuola e portandola a casa; mio padre la tiene una volta alla settimana. Altri supporti non ce ne sono», osserva Noemi. Che ammette di aver scelto di studiare psicologia «per capire come pensa una sorella con problemi cognitivi, anche se non vorrei lavorare con persone che li hanno. I medici ci avevano detto che non avrebbe letto e scritto né parlato, invece adesso lo fa e racconta tutto quello che le passa per la testa! Si autodefinisce principessa e vuole essere chiamata così. Puntiamo alla consapevolezza, per renderla sempre più autonoma. Sta imparando a verbalizzare le emozioni, racconta anche bugie apposta e fa capricci come tutti i bambini. Sono proprio fiera di mia sorella, stravedo per lei, me ne vanto con gli amici: è il mio tutto, sarò sempre il suo scudo. La sera, dopo aver preso le medicine, è il momento delle "coccoline": si addormenta fra le mie braccia».
Invece Edoardo (altro nome di fantasia), oggi 35enne, ricorda il rapporto con sua madre con un disturbo bipolare: «Da piccolo mi sentivo amato. Addirittura la mamma non ci pensò due volte a scendere in cortile dalla sua camera della clinica psichiatrica, per venirmi a salutare: era ricoverata dopo uno dei suoi tentativi di suicidio. Non sapevo cosa fosse successo, non mi era stato spiegato perché non avrei potuto capirlo. Dopo qualche tempo, venne dimessa e tornò a casa con una terapia». Allora il padre «assorbiva parte del lavoro che avrei dovuto fare io dopo, quando i miei divorziarono e io fui affidato a mia madre. Un caregiving invisibile e subdolo, come subdola è la malattia della mamma; le richieste a cui ho dovuto far fronte erano di tipo emotivo e relazionale. Immagino che i professori a scuola non abbiano mai notato il disagio dietro qualche mio fallimento scolastico o dai miei comportamenti, ritenendomi lazzarone e asino. I miei tentativi di evasione venivano visti come delle trasgressioni fini a se stesse, mentre erano dei modi per non arrivare a odiare mia madre, per poi poter tornare a esserci. Quindi nessuno dei grandi si è mai chiesto se fosse tutto a posto, dunque perché anche solo provare a chiedermi cosa non andasse? Facevo esattamente come tutti: nessuna domanda».
Edoardo aveva «un compito impossibile da rifiutare, pena gli enormi sensi di colpa per non essere stato in grado di fare la mia parte e così contribuire a non far precipitare la situazione perennemente instabile, dove da un momento all’altro si doveva convivere con una difficile crisi. Il mio carattere ne risentiva: per anni ho portato avanti il ruolo di una sorta di tutore, mettendo per forza di cose da parte me stesso e diversi miei bisogni. Mamma era in cura presso professionisti della psichiatria, ma io non sapevo che si possono tessere delle reti intorno al paziente e alla sua famiglia». Una svolta avviene quando il ragazzo comincia un percorso di psicoterapia, «dapprima perché avevo problemi comportamentali (qualcosa doveva pur straripare), poi perché iniziavo a voler capire delle caratteristiche di me stesso che ritenevo anomali. Così è partito un lungo e faticoso lavoro che dura ancora e ha cambiato molto la mia modalità di interfacciarmi con la mamma: continuo ad amarla, ma con approcci sani e non nocivi per me stesso. Diventare consapevole di essere stato in una condizione inconsueta mi ha dato strumenti per essere più padrone di me stesso».
Anche Gaia (nome di fantasia), 34enne, ha convissuto con una madre con una patologia psichiatrica severa come la schizofrenia: «Sente voci, ha allucinazioni e non riesce a razionalizzare. Sono stata esposta a tutto ciò che è deleterio per un bambino, con una fatica emotiva e non solo fisica. Mia madre era autosufficiente, ma non nella gestione degli oneri casalinghi; vivevamo con la pensione di mia nonna e avevamo un background socioeconomico basso. Avrei voluto qualcuno che si prendesse cura di me, pattuendo i limiti entro cui prendermi cura di mia madre, cosa che mi faceva anche piacere». Gaia ha iniziato a lavorare molto presto – cameriera a 14 anni nel fine settimana, impiegata in call center, insegnante di ginnastica, receptionist, promoter –, oggi fa l’insegnante e si sta laureando in Formazione primaria alla facoltà di Scienze dell’educazione, «sfruttando le competenze che avevo acquisito nella vita». Nel frattempo la madre è migliorata e convive con la sua patologia cronica: «Abbiamo maturato altri modi per esperire la nostra relazione madre-figlia non convenzionale. Ho fatto psicoterapia e mi sono presa cura di me per potermi prendere cura di mia madre. Il mio vissuto lo ritengo positivo».