Anche se è sempre bene evitare le semplificazioni
o l’allarmismo sociale, è indubbio che
oggi quando si parla di giovani si evocano in
genere immagini negative e problematiche. Ciò in
quanto l’essere giovani sembra caratterizzarsi per
una lunga lista di assenze o debolezze, che vanno
dalla sfera formativa a quella del lavoro, dalla difficoltà
di raggiungere l’autonomia al rischio di non affermarsi.
Da molte parti ormai si etichettano i giovani
come la generazione “senza”: senza fretta di crescere,
senza un lavoro stabile e prospettive certe,
senza un’intenzione ravvicinata di famiglia, senza le
prerogative sociali possedute dai coetanei del passato,
senza spazi e ruoli di rilievo capaci di offrire sicurezza
e fiducia. Questa condizione di debolezza
strutturale, di difficoltà di inserimento sociale, di rallentamento
nel cammino verso i ruoli adulti, impedisce
a molti giovani di coltivare la speranza nel futuro
e di tendere a mete socialmente impegnative.
Franco Garelli
Roberta Ricucci
Sembra questa una condizione endemica del tempo
presente, che fa sì che i giovani siano da alcuni anni
degli “osservati speciali”, situati stabilmente sul lettino
diagnostico delle malattie pubbliche; per cui si
riversano su di essi le preoccupazioni di tutta la società,
che non accetta l’idea che le nuove generazioni vivano
a rimorchio delle precedenti e non rappresentino
una risorsa di rinnovamento. Si tratta di problemi
al centro dei lavori di molti studiosi dei fenomeni sociali,
che vedono nell’attuale disagio dei giovani uno
dei più laceranti malesseri della nostra epoca. Uno
di essi, il demografo Livi Bacci (nel volume Avanti giovani,
alla riscossa, Il Mulino), ha offerto un quadro impressionante
del ritardo e della passività
generazionale dei nostri giovani rispetto
ai loro coetanei del passato.
Cent’anni fa, oltre un terzo della popolazione
economicamente attiva aveva
meno di 30 anni, mentre oggi si trova
in questa condizione solo un giovane
su otto. Allora, era consistente la quota
di giovani (sotto i trent’anni) già inseriti
nelle diverse categorie professionali,
che ammontavano al 10% dei medici,
al 19% degli ingegneri, al 21% degli
avvocati, al 22% del clero. Oggi in
queste professioni l’insieme dei soggetti
con meno di 30 anni oscilla tra il 3 e
il 9%. La sindrome del ritardo è poi
evidente in una generazione che sposta
negli anni le scelte di vita fondamentali:
negli ultimi tre decenni, per
esempio, l’età del primo matrimonio
si è spostata dai 24 ai 29 anni.
In sintesi, protagonisti pallidi della
società contemporanea, i giovani d’oggi
sembrano aver perso il ruolo di rilievo
che avevano nel passato, hanno ceduto
spazio e contano di meno di un
tempo in tutti i settori sociali, eccetto
che nel divertimento e nel consumo.
Per la verità, il bilancio non è tutto deficitario,
in quanto gli attuali ventenni
godono di una dote di salute e di benessere,
di formazione, di possibilità
di scelta in vari campi, assai più ricca
di quella a disposizione dei coetanei
del passato. In ogni decennio successivo
al 1950, per esempio, i giovani hanno
guadagnato un centimetro e mezzo
di statura, aggiunto due anni alla
speranza di vita, trascorso un anno e
un semestre in più sui banchi di scuola.
Dunque, con il passare degli anni,
sono più alti, più sani, più istruiti e forse
più belli. In sintesi i nostri giovani
sopportano un fardello di infelicità
più leggero di quello che opprimeva i
loro coetanei alcuni decenni or sono;
ma la liberazione da una serie di costrizioni
e condizionamenti fisici e culturali
non ha permesso loro di contare
di più nelle dinamiche sociali e pubbliche.
Di qui l’allarme per una situazione
che penalizza la crescita del Paese,
che evidenzia una perdita netta in
creatività umana e scientifica, frutto di
un ricambio generazionale mancato.
Franco Garelli
Roberta Ricucci
La diagnosi maggiore di questa situazione
riguarda la condizione di precariato
occupazionale che molti giovani
stanno vivendo. Da tempo le nuove
generazioni costituiscono l’anello debole
di un sistema economico nazionale
da sempre segnato da molti squilibri,
destinato a complicarsi ulteriormente
a seguito della crisi che negli ultimi
anni ha colpito i mercati finanziari
di tutto il mondo. Così i giovani sembrano
più di altri gruppi sociali pagare
il costo della globalizzazione; o di una
politica nazionale che per troppo tempo
li ha relegati nella sfera dei non garantiti,
avendo investito le non molte
risorse più per quanti erano già inseriti
nel mercato del lavoro che per chi
stava affacciandosi a esso; o di un mondo
del lavoro ormai sottosopra, con il
Vecchio Continente che non regge le
sfide dei Paesi emergenti, con molte
imprese che investono altrove se il Belpaese
non rivede gli accordi sindacali
del passato e se non imbocca la strada
della flessibilità occupazionale.
L’esito triste di tutte queste dinamiche
è una generazione che ha appiccicata
sulla propria pelle l’etichetta del
precario, dell’instabilità occupazionale,
dell’assenza di un reddito adeguato
per pianificare il futuro. Saranno
anche cresciuti in un clima da “bamboccioni”
(come ha sentenziato a suo
tempo Padoa Schioppa), ma oggi essi
toccano con mano di avere poche possibilità
di raddrizzare la loro esistenza.
Circa un terzo dei giovani, ci dicono
gli ultimi dati Istat, sono disoccupati
e molti “abitano” quel Sud Italia
che non riesce a scrollarsi di dosso
l’etichetta della debolezza istituzionale e imprenditoriale. Ma a fianco dei
disoccupati vi è un folto esercito di
giovani a cui si aprono solo prospettive
di lavoro precario, fatto di occupazioni
saltuarie, in nero, part-time, a
termine, a progetto, di rapporti flessibili,
di contratti stagionali ecc. Tutti
termini che indicano come un’ampia
quota di soggetti sia involontariamente
esposta a situazioni di incertezza,
che vanno dalla durata del rapporto
di lavoro alla mancata copertura assicurativa,
dalla debole sicurezza sociale
alla labilità di trattamento previdenziale.
Tutti aspetti che intaccano i diritti
del lavoratore, riducono la qualità
della vita delle persone, condizionano
la possibilità di pensare al futuro.
Sullo sfondo d’un quadro già fosco
si staglia poi una categoria del tutto
particolare, che più di altre sembra illustrare
la crisi economica e di fiducia
che stiamo vivendo. È l’esercito dei
giovani “rassegnati”, che non hanno
più orizzonti e vivono nel limbo del
non lavoro e del non studio. Sempre
più ragazzi dai 16 ai 29 anni non operano
più alcun investimento, non sembrano
chiedere più nulla né al mercato
del lavoro, né alla scuola. Si tratta
di giovani senza occupazione ma che
non seguono corsi di formazione,
non pensano all’università, né cercano
un impiego. Rassegnati, dunque, a
farsi mantenere dai genitori, a vivere
alla giornata, a una marginalità sociale
che li priva di aspettative e coinvolgimento.
Le ultime statistiche ci dicono
che oltre il 20% dei giovani vive questa
singolare condizione “né, né” (né
lavoro, né scuola), che affligge una
parte consistente della disoccupazione
giovanile under 25. Tuttavia non si
tratta soltanto di un’anomalia italiana,
in quanto in tutta Europa l’esercito
dei Neet (Not in Education, Employment
or Training) è in forte crescita,
non risparmiando nemmeno le Nazioni
dai fondamentali economici più
forti dei nostri. Il primato per i giovani
“rassegnati” spetta alla Spagna
(32%), ma anche Germania e Francia
non se la passano troppo bene, avendo
il 12% dei loro giovani in questa
condizione. Il profilo di questi giovani
è allarmante. Non vivono il precariato
e l’instabilità occupazionale come primo
gradino per tendere a prospettive
migliori. Non protestano nella società
per rivendicare i loro diritti e conquistare
spazi e posizioni decenti. Non
operano delle “conversioni” formative
(riqualificazioni) capaci di aprire
loro sbocchi realistici sul mercato del
lavoro. Semplicemente si arrendono,
tirano i remi in barca, vivono con la testa
da un’altra parte, si “sospendono”
dalla società ma anche dalle loro responsabilità.
Nessuna società può permettersi
che una quota così ampia di
giovani perda la fiducia e rimanga incastrata
nel vicolo cieco della crisi.
Franco Garelli
Roberta Ricucci
Già si è accennato ai fattori (nostrani
ed extra-nazionali) che possono
aver innescato questa situazione. Tra
di essi ve ne sono alcuni che chiamano
in causa gli stessi giovani, come parte
di un sistema che se non si rinnova
velocemente rischia davvero di non
trovare soluzioni alla crisi. Il riferimento
in questo caso è a un Paese che
per troppo tempo ha vissuto al di sopra
delle proprie possibilità, aspetto
questo che rapportato ai giovani significa
che si sono coltivate aspettative di
realizzazione sociale non congruenti
con le condizioni di partenza o con le
capacità acquisite nell’iter formativo.
Ciò per dire che molte famiglie
(per i propri figli) e molti giovani
(per sé) pensano “troppo in grande”
rispetto agli sbocchi occupazionali
che il sistema offre; e in questa linea
esprimono domande che non incontrano
l’offerta disponibile, alimentano
attese che non hanno riscontro
nella realtà, innescano bisogni che appartengono
soltanto al mondo dei sogni.
Negli ultimi decenni, troppe famiglie
e troppi giovani sembrano aver
perso il senso della realtà, in una società
che da un lato ha svalutato il lavoro
tecnico e manuale con l’idea che
tutti possano svolgere lavori puliti e di
concetto; e che dall’altro vede ridursi
la quota di persone disposte a cercare
il lavoro là dove esso c’è, mentre è lunga
la fila di quanti sperano di trovarlo
in linea con le proprie aspettative o in
un “altrove” non meglio precisato. Il
meccanismo coinvolge ovviamente
gli apparati formativi e le scelte politiche
in questo campo, a fronte di una
scuola e di un’università sovente poco
raccordate al mondo del lavoro e poco
ricettive nel cogliere le istanze del
cambiamento. Di questi tempi è calda
la polemica sul valore del titolo di studio,
sull’opportunità o meno di considerare
la laurea come un criterio base
nelle assunzioni nel pubblico impiego
ecc.; tutte questioni dovute
all’idea (magari discutibile) che i titoli
di cui i giovani sono in possesso non
abbiano lo stesso valore, che il riconoscimento
debba andare non all’iter
formativo formale ma ai contenuti acquisiti
e al contesto in cui essi sono stati
appresi; in altri termini, che in un
mondo diseguale occorra premiare
chi davvero offre e sa di più, piuttosto
che una formazione standardizzata
che non fa emergere le eccellenze.
Insomma, anche il sistema formativo
(e politico) ha le sue responsabilità,
quando è più orientato a tenere i
giovani in una situazione di parcheggio
che a offrire loro specifiche competenze
e abilità; quando alimenta
più una cultura della garanzia che
quella del rischio; quando offre pochi
stimoli ai giovani e non li sollecita al
protagonismo perché non è in grado
di innovarsi e di organizzarsi meglio.
Intendiamoci: è ovvio che la causa prima
della crisi occupazionale che ha investito
in questi anni i Paesi occidentali
è di natura economica, a fronte di
un sistema che vive una crisi di sviluppo
senza precedenti e della forte concorrenza
che si è prodotta nel mercato
del lavoro internazionale. In questo
quadro, le Nazioni che prima escono
dalla crisi sono quelle che hanno agito
in modo lungimirante, investendo
meglio le risorse a disposizione, razionalizzando
l’esistente, riqualificando
l’offerta formativa, puntando sull’innovazione
ecc.; tutte scelte poco praticate
dai Paesi più deboli, condizionati
da squilibri (sia economici sia politici)
che allontanano nel tempo le possibilità
di ripresa e di sviluppo.
Insomma, anche il sistema formativo
(e politico) ha le sue responsabilità,
quando è più orientato a tenere i
giovani in una situazione di parcheggio
che a offrire loro specifiche competenze
e abilità; quando alimenta
più una cultura della garanzia che
quella del rischio; quando offre pochi
stimoli ai giovani e non li sollecita al
protagonismo perché non è in grado
di innovarsi e di organizzarsi meglio.
Intendiamoci: è ovvio che la causa prima
della crisi occupazionale che ha investito
in questi anni i Paesi occidentali
è di natura economica, a fronte di
un sistema che vive una crisi di sviluppo
senza precedenti e della forte concorrenza
che si è prodotta nel mercato
del lavoro internazionale. In questo
quadro, le Nazioni che prima escono
dalla crisi sono quelle che hanno agito
in modo lungimirante, investendo
meglio le risorse a disposizione, razionalizzando
l’esistente, riqualificando
l’offerta formativa, puntando sull’innovazione
ecc.; tutte scelte poco praticate
dai Paesi più deboli, condizionati
da squilibri (sia economici sia politici)
che allontanano nel tempo le possibilità
di ripresa e di sviluppo.
Tuttavia, anche nelle economie più
precarie non mancano possibilità occupazionali,
e il fatto che molti lavori
“nostrani” siano appetiti soltanto dagli
immigrati stranieri è un indizio
della refrattarietà dei giovani autoctoni
a operare scelte realistiche in attesa
di traguardi incerti o velleitari.
Franco Garelli
Roberta Ricucci
Da alcuni anni, dunque, il barometro
giovani ha virato al pessimismo,
perché – come ha sottolineato il Presidente
Giorgio Napolitano – «sappiamo
che troppi giovani sono dominati
dall’incertezza del futuro, dalla difficoltà
di trovare un lavoro qualificato e
remunerativo». Tuttavia occorre non
fare di ogni erba un fascio e prendere
coscienza che la crisi non colpisce tutti
i giovani allo stesso modo, in quanto
una parte non irrilevante di essi
non è succube della situazione e cerca
di reagire con forza e responsabilità.
Accanto ai giovani “rassegnati” o disorientati,
ve ne sono altri. Quelli delle
eccellenze, che vincono le Olimpiadi
di matematica o si trovano a loro
agio fra universi linguistici diversi;
quelli dell’impegno sociale, che rinfrescano
e portano nuova linfa al lavoro
delle istituzioni e del privato sociale
a livello locale; o ancora, le migliaia di giovani che ogni anno emigrano
dal loro contesto in cerca di nuovi stimoli
e prospettive, approdando dal
Sud in altre, più sviluppate Regioni
italiane, o che lasciano per qualche
tempo l’Italia in vista di esperienze di
studio e di lavoro all’estero. Proprio
la “generazione erasmus” è quella che
oggi viene vista con particolare favore,
per la capacità che essa ha di rinnovare
sia la propria vita sia quella
dell’università. Ma a fianco di essa, vi
sono i non pochi giovani spinti dalla
chiusura del nostro sistema a cercare
fortune occupazionali altrove, magari
per affermarsi in quelle strutture di ricerca
straniere che meglio delle nostre
sembrano aperte ai criteri del merito
e dell’iniziativa personale.
Oltre a questi casi di mobilità, vi sono
in Italia molti altri giovani che anche
in condizioni difficili non smettono
di impegnarsi per costruire il proprio
futuro. Sono giovani imprenditori,
studenti brillanti, ragazzi e ragazze
coinvolti nei diversi volti della società
civile; soggetti alla continua ricerca di
opportunità formative e di lavoro sia
vicine sia lontane, esigenti con sé stessi
e con gli altri, che scandagliano ciò
che offre l’ambiente per cogliere le
sfide più interessanti. Esempi di una
generazione che dimostra di voler stare
sulla scena da protagonista e non
da spettatore nei diversi ambienti della
società, facendo scelte di vita fondate
su valori etici, morali o religiosi
spesso non rispecchiate in una pubblicistica
che guarda incredula a chi di
questi tempi scommette su una propria
famiglia con figli, si dichiara religiosamente
impegnato, sceglie una vita
rispettosa dell’ambiente, dei diritti,
della legalità. Anche questo insieme
di giovani è parte integrante delle
nuove generazioni, che al loro interno
dunque esprimono percorsi molto
diversi nella difficile transizione verso
i ruoli adulti.
Franco Garelli
Roberta Ricucci