Contribuisci a mantenere questo sito gratuito

Riusciamo a fornire informazione gratuita grazie alla pubblicità erogata dai nostri partner.
Accettando i consensi richiesti permetti ad i nostri partner di creare un'esperienza personalizzata ed offrirti un miglior servizio.
Avrai comunque la possibilità di revocare il consenso in qualunque momento.

Selezionando 'Accetta tutto', vedrai più spesso annunci su argomenti che ti interessano.
Selezionando 'Accetta solo cookie necessari', vedrai annunci generici non necessariamente attinenti ai tuoi interessi.

logo san paolo
giovedì 10 ottobre 2024
 
 

Giovani: non solo rassegnati e passivi

19/03/2012  I sociologi descrivono i giovani di oggi come "rassegnati", ma non tutti si bloccano sul pessimismo. Altri osano e regalano scossoni alla società.

Anche se è sempre bene evitare le semplificazioni o l’allarmismo sociale, è indubbio che oggi quando si parla di giovani si evocano in genere immagini negative e problematiche. Ciò in quanto l’essere giovani sembra caratterizzarsi per una lunga lista di assenze o debolezze, che vanno dalla sfera formativa a quella del lavoro, dalla difficoltà di raggiungere l’autonomia al rischio di non affermarsi. Da molte parti ormai si etichettano i giovani come la generazione “senza”: senza fretta di crescere, senza un lavoro stabile e prospettive certe, senza un’intenzione ravvicinata di famiglia, senza le prerogative sociali possedute dai coetanei del passato, senza spazi e ruoli di rilievo capaci di offrire sicurezza e fiducia. Questa condizione di debolezza strutturale, di difficoltà di inserimento sociale, di rallentamento nel cammino verso i ruoli adulti, impedisce a molti giovani di coltivare la speranza nel futuro e di tendere a mete socialmente impegnative.

Franco Garelli
Roberta Ricucci

Sembra questa una condizione endemica del tempo presente, che fa sì che i giovani siano da alcuni anni degli “osservati speciali”, situati stabilmente sul lettino diagnostico delle malattie pubbliche; per cui si riversano su di essi le preoccupazioni di tutta la società, che non accetta l’idea che le nuove generazioni vivano a rimorchio delle precedenti e non rappresentino una risorsa di rinnovamento. Si tratta di problemi al centro dei lavori di molti studiosi dei fenomeni sociali, che vedono nell’attuale disagio dei giovani uno dei più laceranti malesseri della nostra epoca. Uno di essi, il demografo Livi Bacci (nel volume Avanti giovani, alla riscossa, Il Mulino), ha offerto un quadro impressionante del ritardo e della passività generazionale dei nostri giovani rispetto ai loro coetanei del passato. Cent’anni fa, oltre un terzo della popolazione economicamente attiva aveva meno di 30 anni, mentre oggi si trova in questa condizione solo un giovane su otto. Allora, era consistente la quota di giovani (sotto i trent’anni) già inseriti nelle diverse categorie professionali, che ammontavano al 10% dei medici, al 19% degli ingegneri, al 21% degli avvocati, al 22% del clero. Oggi in queste professioni l’insieme dei soggetti con meno di 30 anni oscilla tra il 3 e il 9%. La sindrome del ritardo è poi evidente in una generazione che sposta negli anni le scelte di vita fondamentali: negli ultimi tre decenni, per esempio, l’età del primo matrimonio si è spostata dai 24 ai 29 anni.

In sintesi, protagonisti pallidi della società contemporanea, i giovani d’oggi sembrano aver perso il ruolo di rilievo che avevano nel passato, hanno ceduto spazio e contano di meno di un tempo in tutti i settori sociali, eccetto che nel divertimento e nel consumo. Per la verità, il bilancio non è tutto deficitario, in quanto gli attuali ventenni godono di una dote di salute e di benessere, di formazione, di possibilità di scelta in vari campi, assai più ricca di quella a disposizione dei coetanei del passato. In ogni decennio successivo al 1950, per esempio, i giovani hanno guadagnato un centimetro e mezzo di statura, aggiunto due anni alla speranza di vita, trascorso un anno e un semestre in più sui banchi di scuola. Dunque, con il passare degli anni, sono più alti, più sani, più istruiti e forse più belli. In sintesi i nostri giovani sopportano un fardello di infelicità più leggero di quello che opprimeva i loro coetanei alcuni decenni or sono; ma la liberazione da una serie di costrizioni e condizionamenti fisici e culturali non ha permesso loro di contare di più nelle dinamiche sociali e pubbliche. Di qui l’allarme per una situazione che penalizza la crescita del Paese, che evidenzia una perdita netta in creatività umana e scientifica, frutto di un ricambio generazionale mancato.

Franco Garelli
Roberta Ricucci

La diagnosi maggiore di questa situazione riguarda la condizione di precariato occupazionale che molti giovani stanno vivendo. Da tempo le nuove generazioni costituiscono l’anello debole di un sistema economico nazionale da sempre segnato da molti squilibri, destinato a complicarsi ulteriormente a seguito della crisi che negli ultimi anni ha colpito i mercati finanziari di tutto il mondo. Così i giovani sembrano più di altri gruppi sociali pagare il costo della globalizzazione; o di una politica nazionale che per troppo tempo li ha relegati nella sfera dei non garantiti, avendo investito le non molte risorse più per quanti erano già inseriti nel mercato del lavoro che per chi stava affacciandosi a esso; o di un mondo del lavoro ormai sottosopra, con il Vecchio Continente che non regge le sfide dei Paesi emergenti, con molte imprese che investono altrove se il Belpaese non rivede gli accordi sindacali del passato e se non imbocca la strada della flessibilità occupazionale.

L’esito triste di tutte queste dinamiche è una generazione che ha appiccicata sulla propria pelle l’etichetta del precario, dell’instabilità occupazionale, dell’assenza di un reddito adeguato per pianificare il futuro. Saranno anche cresciuti in un clima da “bamboccioni” (come ha sentenziato a suo tempo Padoa Schioppa), ma oggi essi toccano con mano di avere poche possibilità di raddrizzare la loro esistenza. Circa un terzo dei giovani, ci dicono gli ultimi dati Istat, sono disoccupati e molti “abitano” quel Sud Italia che non riesce a scrollarsi di dosso l’etichetta della debolezza istituzionale e imprenditoriale. Ma a fianco dei disoccupati vi è un folto esercito di giovani a cui si aprono solo prospettive di lavoro precario, fatto di occupazioni saltuarie, in nero, part-time, a termine, a progetto, di rapporti flessibili, di contratti stagionali ecc. Tutti termini che indicano come un’ampia quota di soggetti sia involontariamente esposta a situazioni di incertezza, che vanno dalla durata del rapporto di lavoro alla mancata copertura assicurativa, dalla debole sicurezza sociale alla labilità di trattamento previdenziale. Tutti aspetti che intaccano i diritti del lavoratore, riducono la qualità della vita delle persone, condizionano la possibilità di pensare al futuro.

Sullo sfondo d’un quadro già fosco si staglia poi una categoria del tutto particolare, che più di altre sembra illustrare la crisi economica e di fiducia che stiamo vivendo. È l’esercito dei giovani “rassegnati”, che non hanno più orizzonti e vivono nel limbo del non lavoro e del non studio. Sempre più ragazzi dai 16 ai 29 anni non operano più alcun investimento, non sembrano chiedere più nulla né al mercato del lavoro, né alla scuola. Si tratta di giovani senza occupazione ma che non seguono corsi di formazione, non pensano all’università, né cercano un impiego. Rassegnati, dunque, a farsi mantenere dai genitori, a vivere alla giornata, a una marginalità sociale che li priva di aspettative e coinvolgimento. Le ultime statistiche ci dicono che oltre il 20% dei giovani vive questa singolare condizione “né, né” (né lavoro, né scuola), che affligge una parte consistente della disoccupazione giovanile under 25. Tuttavia non si tratta soltanto di un’anomalia italiana, in quanto in tutta Europa l’esercito dei Neet (Not in Education, Employment or Training) è in forte crescita, non risparmiando nemmeno le Nazioni dai fondamentali economici più forti dei nostri. Il primato per i giovani “rassegnati” spetta alla Spagna (32%), ma anche Germania e Francia non se la passano troppo bene, avendo il 12% dei loro giovani in questa condizione. Il profilo di questi giovani è allarmante. Non vivono il precariato e l’instabilità occupazionale come primo gradino per tendere a prospettive migliori. Non protestano nella società per rivendicare i loro diritti e conquistare spazi e posizioni decenti. Non operano delle “conversioni” formative (riqualificazioni) capaci di aprire loro sbocchi realistici sul mercato del lavoro. Semplicemente si arrendono, tirano i remi in barca, vivono con la testa da un’altra parte, si “sospendono” dalla società ma anche dalle loro responsabilità. Nessuna società può permettersi che una quota così ampia di giovani perda la fiducia e rimanga incastrata nel vicolo cieco della crisi.

Franco Garelli
Roberta Ricucci

Già si è accennato ai fattori (nostrani ed extra-nazionali) che possono aver innescato questa situazione. Tra di essi ve ne sono alcuni che chiamano in causa gli stessi giovani, come parte di un sistema che se non si rinnova velocemente rischia davvero di non trovare soluzioni alla crisi. Il riferimento in questo caso è a un Paese che per troppo tempo ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità, aspetto questo che rapportato ai giovani significa che si sono coltivate aspettative di realizzazione sociale non congruenti con le condizioni di partenza o con le capacità acquisite nell’iter formativo.

Ciò per dire che molte famiglie (per i propri figli) e molti giovani (per sé) pensano “troppo in grande” rispetto agli sbocchi occupazionali che il sistema offre; e in questa linea esprimono domande che non incontrano l’offerta disponibile, alimentano attese che non hanno riscontro nella realtà, innescano bisogni che appartengono soltanto al mondo dei sogni. Negli ultimi decenni, troppe famiglie e troppi giovani sembrano aver perso il senso della realtà, in una società che da un lato ha svalutato il lavoro tecnico e manuale con l’idea che tutti possano svolgere lavori puliti e di concetto; e che dall’altro vede ridursi la quota di persone disposte a cercare il lavoro là dove esso c’è, mentre è lunga la fila di quanti sperano di trovarlo in linea con le proprie aspettative o in un “altrove” non meglio precisato. Il meccanismo coinvolge ovviamente gli apparati formativi e le scelte politiche in questo campo, a fronte di una scuola e di un’università sovente poco raccordate al mondo del lavoro e poco ricettive nel cogliere le istanze del cambiamento. Di questi tempi è calda la polemica sul valore del titolo di studio, sull’opportunità o meno di considerare la laurea come un criterio base nelle assunzioni nel pubblico impiego ecc.; tutte questioni dovute all’idea (magari discutibile) che i titoli di cui i giovani sono in possesso non abbiano lo stesso valore, che il riconoscimento debba andare non all’iter formativo formale ma ai contenuti acquisiti e al contesto in cui essi sono stati appresi; in altri termini, che in un mondo diseguale occorra premiare chi davvero offre e sa di più, piuttosto che una formazione standardizzata che non fa emergere le eccellenze.

Insomma, anche il sistema formativo (e politico) ha le sue responsabilità, quando è più orientato a tenere i giovani in una situazione di parcheggio che a offrire loro specifiche competenze e abilità; quando alimenta più una cultura della garanzia che quella del rischio; quando offre pochi stimoli ai giovani e non li sollecita al protagonismo perché non è in grado di innovarsi e di organizzarsi meglio. Intendiamoci: è ovvio che la causa prima della crisi occupazionale che ha investito in questi anni i Paesi occidentali è di natura economica, a fronte di un sistema che vive una crisi di sviluppo senza precedenti e della forte concorrenza che si è prodotta nel mercato del lavoro internazionale. In questo quadro, le Nazioni che prima escono dalla crisi sono quelle che hanno agito in modo lungimirante, investendo meglio le risorse a disposizione, razionalizzando l’esistente, riqualificando l’offerta formativa, puntando sull’innovazione ecc.; tutte scelte poco praticate dai Paesi più deboli, condizionati da squilibri (sia economici sia politici) che allontanano nel tempo le possibilità di ripresa e di sviluppo.

Insomma, anche il sistema formativo (e politico) ha le sue responsabilità, quando è più orientato a tenere i giovani in una situazione di parcheggio che a offrire loro specifiche competenze e abilità; quando alimenta più una cultura della garanzia che quella del rischio; quando offre pochi stimoli ai giovani e non li sollecita al protagonismo perché non è in grado di innovarsi e di organizzarsi meglio. Intendiamoci: è ovvio che la causa prima della crisi occupazionale che ha investito in questi anni i Paesi occidentali è di natura economica, a fronte di un sistema che vive una crisi di sviluppo senza precedenti e della forte concorrenza che si è prodotta nel mercato del lavoro internazionale. In questo quadro, le Nazioni che prima escono dalla crisi sono quelle che hanno agito in modo lungimirante, investendo meglio le risorse a disposizione, razionalizzando l’esistente, riqualificando l’offerta formativa, puntando sull’innovazione ecc.; tutte scelte poco praticate dai Paesi più deboli, condizionati da squilibri (sia economici sia politici) che allontanano nel tempo le possibilità di ripresa e di sviluppo. Tuttavia, anche nelle economie più precarie non mancano possibilità occupazionali, e il fatto che molti lavori “nostrani” siano appetiti soltanto dagli immigrati stranieri è un indizio della refrattarietà dei giovani autoctoni a operare scelte realistiche in attesa di traguardi incerti o velleitari.

Franco Garelli
Roberta Ricucci

Da alcuni anni, dunque, il barometro giovani ha virato al pessimismo, perché – come ha sottolineato il Presidente Giorgio Napolitano – «sappiamo che troppi giovani sono dominati dall’incertezza del futuro, dalla difficoltà di trovare un lavoro qualificato e remunerativo». Tuttavia occorre non fare di ogni erba un fascio e prendere coscienza che la crisi non colpisce tutti i giovani allo stesso modo, in quanto una parte non irrilevante di essi non è succube della situazione e cerca di reagire con forza e responsabilità.

Accanto ai giovani “rassegnati” o disorientati, ve ne sono altri. Quelli delle eccellenze, che vincono le Olimpiadi di matematica o si trovano a loro agio fra universi linguistici diversi; quelli dell’impegno sociale, che rinfrescano e portano nuova linfa al lavoro delle istituzioni e del privato sociale a livello locale; o ancora, le migliaia di giovani che ogni anno emigrano dal loro contesto in cerca di nuovi stimoli e prospettive, approdando dal Sud in altre, più sviluppate Regioni italiane, o che lasciano per qualche tempo l’Italia in vista di esperienze di studio e di lavoro all’estero. Proprio la “generazione erasmus” è quella che oggi viene vista con particolare favore, per la capacità che essa ha di rinnovare sia la propria vita sia quella dell’università. Ma a fianco di essa, vi sono i non pochi giovani spinti dalla chiusura del nostro sistema a cercare fortune occupazionali altrove, magari per affermarsi in quelle strutture di ricerca straniere che meglio delle nostre sembrano aperte ai criteri del merito e dell’iniziativa personale.

Oltre a questi casi di mobilità, vi sono in Italia molti altri giovani che anche in condizioni difficili non smettono di impegnarsi per costruire il proprio futuro. Sono giovani imprenditori, studenti brillanti, ragazzi e ragazze coinvolti nei diversi volti della società civile; soggetti alla continua ricerca di opportunità formative e di lavoro sia vicine sia lontane, esigenti con sé stessi e con gli altri, che scandagliano ciò che offre l’ambiente per cogliere le sfide più interessanti. Esempi di una generazione che dimostra di voler stare sulla scena da protagonista e non da spettatore nei diversi ambienti della società, facendo scelte di vita fondate su valori etici, morali o religiosi spesso non rispecchiate in una pubblicistica che guarda incredula a chi di questi tempi scommette su una propria famiglia con figli, si dichiara religiosamente impegnato, sceglie una vita rispettosa dell’ambiente, dei diritti, della legalità. Anche questo insieme di giovani è parte integrante delle nuove generazioni, che al loro interno dunque esprimono percorsi molto diversi nella difficile transizione verso i ruoli adulti.

Franco Garelli
Roberta Ricucci

 
 
Pubblicità
Edicola San Paolo