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domenica 16 febbraio 2025
 
Il ritratto
 
Credere

Giovanni Paolo II, uomo del suo tempo e uomo di Dio

04/10/2018  A definirlo così è Luigi Accattoli, che seguì il pontificato di Wojtyla come vaticanista del Corriere della sera: «Operaio, attore, amante della montagna... Ha mostrato alla gente della sua epoca cosa significhi credere in Dio»

Su Giovanni Paolo II non finirei di dire. Sono stato cronista del suo Pontificato dal primo all’ultimo giorno. Ho fatto 85 dei suoi 104 viaggi nel mondo, gli ho dedicato 6 tra volumi e volumetti e forse 3 mila articoli. Ma due sono i momenti forti del mio incontro con lui: uno nella cappella del suo appartamento e un altro attraverso la parola di un collega morente che mi disse di aver ricevuto da quel Papa un forte aiuto a credere.

L’incontro risale al dicembre del 1989, quando fui invitato da don Stanislaw Dziwisz alla Messa del mattino nella cappella dell’appartamento privato. Avevo appena pubblicato da Mondadori un volumetto a quattro mani scritto con il collega Domenico Del Rio e intitolato Wojtyla il nuovo Mosè. Il Papa lo lesse durante un viaggio africano e chiese a Navarro-Valls se c’erano, su quell’aereo, gli autori del libro. Il portavoce rispose che l’uno c’era, ma l’altro – cioè io – no, «perché ha la moglie molto malata». La mia prima moglie, infatti, era colpita da tumore al seno e sarebbe morta un anno più tardi.

Veniamo invitati alla Messa e siamo colpiti come tutti dalla concentrazione del Papa nella preghiera e dalle lunghe pause di silenzio, che facevano durare per un’ora quella celebrazione senza omelia. La più piccola dei miei quattro figli, che aveva due anni (e oggi ne ha 31), si addormentò in braccio a me e verso la fine della Messa si risvegliò e disse: «Ciuccio». Il Papa nella conversazione che avemmo dopo la Messa, nel salone della Biblioteca, prese in braccio la bambina, si complimentò per la sua bravura in cappella e osservò: «Ma un momento si è sentita». Poi chiese: «Che cosa è “ciuccio?”». Ecco com’era Giovanni Paolo: concentrato in Dio e capace insieme di cogliere il più piccolo segno che gli poteva arrivare dall’umanità circostante. Mi parlò del libro che avevo scritto su di lui: «Lei ha potuto leggere, ha potuto studiare e così ha potuto togliere molti miti. La ringrazio per questo sforzo di comprensione».

LA FORZA DELLA SUA FEDE

Dicevo che il libro era scritto insieme a Domenico del Rio, essendo egli vaticanista di Repubblica e io del Corriere della Sera. Quattordici anni più tardi a Domenico, che era vicino a morire e che non voleva visite, si era isolato da tutto e si preparava al passaggio, chiesi durante un ultimo incontro al Gemelli – eravamo nel gennaio del 2003 – se voleva che io dicessi «qualcosa a qualcuno». Rispose: «Al Papa». «Che gli debbo dire?», fu la mia domanda: «Vorrei fargli sapere che lo ringrazio per l’aiuto che mi ha dato a credere. Mi è stata di aiuto la forza della sua fede. Vedendo che credeva con tanto affidamento, allora anch’io un poco mi facevo coraggio. Questo aiuto l’avevo a vederlo pregare, quando si mette in Dio e si vede che questo mettersi in Dio lo salva da tutto».

Per intendere le parole del collega morente occorre sapere che Del Rio in un primo tempo era stato un “cronista” molto critico di papa Wojtyla, tant’è che una volta, in occasione di un viaggio in America latina (era quello in Uruguay, Bolivia, Perù e Paraguay del maggio 1988), era stato cancellato dall’elenco dei giornalisti ammessi all’aereo papale dopo che quell’elenco era stato pubblicato: la clamorosa decisione fu presa dal portavoce Navarro-Valls a seguito di un articolo nel quale Domenico riferiva un giudizio tranciante di un teologo spagnolo, José Maria Diez Alegria, sul “trionfalismo” dei viaggi papali.

UMILE SULL’INGINOCCHIATOIO

  

Dopo la morte della mia prima moglie, ebbi una prova viva della capacità di memoria di quel grande Papa. Era il gennaio del 1991 ed ero con un gruppo di colleghi nella Sala Clementina per un suo pronunciamento sulla prima guerra del Golfo che era appena iniziata: guerra tra l’Iraq di Saddam Hussein e una coalizione a guida americana. Al termine dell’incontro il cardinale Ugo Poletti mi prese per un braccio e mi presentò al Papa: «Santità, questo giornalista ha avuto un grave lutto». «Sappiamo», rispose il Papa prendendomi le due mani: «Abbiamo parlato e abbiamo pregato. Il nome della Signora era nel mio inginocchiatoio».

Entrare nell’inginocchiatoio del Papa era gran cosa per chi conosceva da vicino papa Wojtyla e aveva fiducia nella preghiera dei santi. Un giorno, il 27 ottobre 1995, lo sentii parlare così nell’Aula Nervi, con parole improvvisate, di quell’inginocchiatoio: «Io prendo nota delle intenzioni che mi vengono indicate da persone di tutto il mondo e le conservo nella mia cappella sull’inginocchiatoio, perché siano in ogni momento presenti nella mia coscienza, anche quando non possono essere letteralmente ripetute ogni giorno. Rimangono lì e si può dire che il Signore Gesù le conosce, perché si trovano tra gli appunti sull’inginocchiatoio e anche nel mio cuore».

Lo straordinario di questo Papa è stato di riuscire a essere totalmente un uomo del suo tempo e insieme e pienamente un uomo di Dio. Attore e poeta, operaio e patriota polacco, amante della montagna e del nuoto, egli non ha avuto alcuna difficoltà a porsi a interprete dell’umanità della sua epoca, ma è riuscito anche a mostrare a quell’umanità che cosa sia credere in Dio ai nostri giorni.

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