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sabato 14 dicembre 2024
 
Trapattoni
 

Giovanni Trapattoni: «Nel pallone globale Il centro non siamo noi»

21/08/2015  È fermo, ma non stanco: «Altri gatti nel sacco? Chissà... Ai miei tempi la Juve era una meta, oggi tutte le squadre sono tappe intermedie»

Il gatto non si ferma mai, il Trap ogni tanto sì – tra una panchina e l’altra – ma lo tiene d’occhio perché non gli esca dal campo visivo. Si sa mai che gli arrivi per le mani un sacco nuovo. Meglio tenersi pronti. «Non dire gatto se non l’hai nel sacco» è l’adagio preferito di Giovanni Trapattoni, che a 76 anni ha calcato i campi di calcio di mezzo mondo e non è ancora domo. Gatto è metafora di molte cose, del risultato prima di tutto, ma potrebbe essere la prossima panchina, se mai ci sarà. Nel mentre, come l’alter ego Zeman, è stato ingaggiato dalla Domenica sportiva per osservare il Campionato di calcio, dal punto di vista di uno sguardo terso, moralmente al di sopra di ogni sospetto.

Peschiamo Trapattoni al telefono, snidandolo dall’ombrellone. Gli diciamo che gli toccherà, televisivamente parlando, la parte “dell’acqua santa”. E lui ride: «Speriamo che non si offenda,  povero Zeman, che l’abbiano almeno avvertito della parte “diabolica” che gli tocca, non merita. “L’acqua santa”? Giocano. Sanno della sorella suora, dell’acqua santa in panchina, ma non come si pensa per vincere le partite, semmai per farsi trovare all’altezza della situazione. Scherzi a parte, la fede è una cosa seria».

In mancanza di gatti propri, lo invitiamo a farsi i gatti, cioè i fatti, dei suoi colleghi impegnati nel Campionato italiano. E Trap, che la sa lunga, ammette che rispetto ai suoi tempi sono aumentate le gatte da pelare, anche nei posti come la Juventus, dove il sacco è bello pieno, ma che senza Tevez, Pirlo e Vidal pesa sulle spalle di Pogba: «Restare in alto è sempre stato difficile, quando sei sull’albero, molti lo scuotono per farti cadere e salire al tuo posto. Il vertice della classifica è da sempre esposto al vento. Di diverso, rispetto al passato, a complicare le cose di chi si deve riconfermare, c’è che ai miei tempi la Juventus era il punto di arrivo di una carriera, la maglia che un giocatore prendeva per tenersela più a lungo possibile. Oggi tutte le maglie, anche le più prestigiose, sono una stazione intermedia: nell’era del calcio globale si circola molto di più e le sirene degli ingaggi sono più convincenti di un tempo».

Calciatori e allenatori vanno, vengono a volte ritornano come “le nuvole” di De André, ma spinti da correnti molto più potenti e vorticose. A proposito di ritorni, dopo averlo stanato sulla Juventus, sua panchina storica, facciamo il gioco di rimetterlo a sedere anche sulle altre che sono state sue. Quella del Milan, per esempio, che ha fatto il diavolo a quattro per riprendersi Ibrahimovic (pare invano, ma sulla carta c’è tempo per insaccare gatti ufficialmente fino alla mezzanotte del 31 agosto, chiusura del calciomercato estivo). Vien da chiedergli se certe stelle di ritorno non siano troppo vaghe per non rivelarsi minestre riscaldate: «Non sono la persona adatta a dare lezioni, sono stato il primo a riprendermi Bettega e Boninsegna, anche loro partiti per ragioni di mercato: se senti che per completare una squadra la pedina che ti manca è quella, la cerchi».

Il difficile nel calcio globale è restare appetibili come una volta, il Campionato italiano non è più, come si diceva il Campionato più bello del mondo, attira meno. O no?

«Il mondo è diventato piccolo, con una mail comunichiamo in tempo reale con il capo opposto del pianeta, è normale che anche il calcio sia diventato mondiale: quelli bravi emigrano dove conviene. Gli stessi agenti sono collegati tra loro, se hanno uno bravo cercano di piazzarlo dove rende meglio. È un fatto irrimediabile».

Anche Roberto Mancini da un anno è tornato sulla panchina dell’Inter: «È un ragazzo intelligente, che ha dimostrato di saper allenare ad alto livello. Ha preso un anno fa una squadra in parabola discendente, fisiologica, dopo un ciclo in cui si è vinto molto, e giustamente ha cercato di fare con Thoir un programma di lungo periodo, l’unica seria garanzia per portare a una vera ricostruzione: in passato si faceva di più, avevano più pazienza: si poteva accettare di non vincere per una stagione, pur di opzionare giocatori che si sarebbero liberati l’anno dopo, per costruire una squadra competitiva sul lungo periodo: andò così con l’Inter di Matthaeus, Brehme e Klinsmann. Che Mancini abbia avuto questa garanzia mi pare importante».

A Roma, a Firenze, Trap non è mai stato, anche se il mercato di queste squadre ne fa dire un gran bene per il Campionato che deve venire.

Roma e Napoli città, invece, hanno già mostrato che non è risolto l’annoso guaio del tifo che degenera in problemi di ordine pubblico. «In Italia il tifoso non ha una maglia, ha una pelle: bianconera, giallorossa, nerazzurra... C’entra in parte il temperamento latino. Ho allenato in Germania, in Irlanda, anche lì si parla di calcio, dopo la partita davanti a una birra, ma poi si torna a casa e si fa altro, qui non si finisce mai. Dopodiché la violenza è una degenerazione e va arginata, a costo di usare deterrenti coercitivi». Giovanni  Trapattoni avrebbe mai chiesto scusa a una curva? «Mai».

Gli altri scandali al Trap fanno allargare le braccia: «L’antidoto non lo conosco, quello che vedo è che, dalla  Fifa in giù, quando girano tanti soldi diventano corruttibili anche i muri di cemento armato: o uno ha una sua morale forte o l’ambiente non lo aiuta. Dobbiamo ripartire dai bambini, io nelle scuole ci vado, ma quando gli interessi sono così forti, non è facile farsi ascoltare».

La vita del Trap sta per diventare un libro, Non dire gatto, in uscita a settembre per Rizzoli. Che c’è che ancora non sappiamo? «Il mio amico Paolo Longhi mi ha cavato anche il sangue, ma è la storia di un ragazzo di campagna fortunato, che un giorno le ha prese perché giocando al pallone consumava le scarpe, sudate dieci ore al giorno da suo padre: un bambino partito da un sentiero e arrivato a un’autostrada».

E che avrebbe ancora voglia di correre: «Una Nazionale chissà, per un club mia moglie non sarebbe d’accordo. Non sono ancora stanco. Le condizioni? Un progetto serio. Se uno mi dice “ti do carta bianca ma devi vincere l’anno prossimo”, gli devo rispondere che mi chiamo Giovanni, non san Giovanni e miracoli non ne so fare». 

Nonostante l’acqua santa.

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