Com’era inevitabile dentro il Palazzo di giustizia a Milano, alla presentazione del libro di Giuliano Amato e Donatella Stasio, Storie di diritti e di democrazia. La Corte costituzionale nella società, dedicato al racconto dell’esperienza della Corte Costituzionale in viaggio nelle carceri e nelle scuole, c’era un convitato di pietra: il gran rifiuto giunto ieri sera dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, che ha negato l’autorizzazione alla presentazione dello stesso libro, prevista per questa mattina dentro il carcere di San Vittore per la quale i detenuti del gruppo di studio "Costituzione viva" si erano preparati.
Com’era prevedibile, lo «sconcerto», per usare una parola di Francesco Maisto Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano, ospitato al volo nella presentazione del pomeriggio essendo previsto solo a quella saltata mattino e poco convinto della motivazione relativa a tempi tecnici, è stato espresso da molti presenti: dagli organizzatori di Rete per i diritti a Donatella Stasio, coautrice, che ha scelto di pronunciare l’intervento preparato per i detenuti e previsto per la mattinata saltata.
Giuliano Amato, presidente emerito della Corte Costituzionale si è sottratto alla domanda diretta e anche a quella indiretta e ha evitato di commentare l’episodio, senza per questo sottrarsi per un solo istante alla chiarezza riguardo al tema centrale dell’incontro: l’opportunità della Corte costituzionale di comunicare il proprio ruolo e le proprie decisioni alla società civile anche al di fuori delle sentenze, adeguando il linguaggio ai contesti. Se si esce dalla pretesa di appassionare dei quindicenni alla descrizione degli organi di rilevanza costituzionale e si scende sul terreno concreto dei diritti, ha spiegato a proposito degli incontri con le scuole: «Scoprono che la Costituzione contiene cose che loro interessano. devi trovare temi legati a loro e su questo riesci a raggiungerli. Una questione di «linguaggio, dialogo, comunicazione», tema meno ovvio e più controverso di quanto si potrebbe immaginare: «Il problema maggiore è stato far capite ai bacucchi delle nostre professioni che quello che stavamo facendo non era entrare in politica. Io sono dell’anteguerra, ma gente più giovane di me pensa che in una democrazia che tale è da 70 anni e tale deve restare ancora pensa che solo gli eletti possano comunicare con i cittadini». E ha spiegato così lo spirito che ha guidato la Corte a uscire dalla torre d’avorio: «L'idea era di dare anche a noi il Concilio vaticano II: se lo è dato la Chiesa e noi continuiamo a parlare latino con le spalle ai fedeli».
L’allusione presto esplicitata alla prassi che la Corte si è data di accompagnare le decisioni con conferenze stampa e comunicati. Dire che la Corte decide in nome del popolo «non significa il popolo debba decidere le sentenze, ma le deve capire: «Ma significa che occorre far sì che il popolo capisca le nostre decisioni e la cultura dalla quale le estrae. Ogni disciplina ha i suoi tecnicismi, quante volte andando dal medico dopo che ha spiegato gli si chiede “ora lo faccia capire anche a me”: non ogni passaggio di una sentenza può essere scritto in un linguaggio comprensibile a tutti, ma può la decisione può essere sintetizzata in un comunicato senza tecnicismi. Penso che vada ampliato l’uso della conferenza stampa per i casi che lo meritano», perché nel consentire le domande aiuta a fare chiarezza, «e a togliere dubbi».
Ha citato il “parla come mangi di Bocca e Brera. «Non va dimenticato, cosa che stava a cuore a Paolo Grossi, presidente conservatore della Corte, che quando hai la responsabilità di decisioni come quelle della Corte non le assolvi come fanno questi nelle riunioni di partito, guai a chi pensa alla corte come se fosse una delle tanti sedi in cui piazzare i propri uomini e le proprie donne! È sempre stato così, un po’ per tutti». E a proposito del dialogo che si ha bisogno di aprire anche dentro le carceri: «Serve a far capire. A chi fa esperienza delle carceri che come ha detto una detenuta a Rebibbia “La Costituzione è uno scudo che non sapevamo di avere. Sta prendendo piede l’idea che in carcere si entra per restare ed essere solo puniti, ma è anticostituzionale senza funzione rieducativa. Occorre che gli italiani si chiariscano le idee: ciascuno di noi è migliorabile e il carcere esiste per migliorarti non per farti marcire finché non ti accade di morire o di procurarti la morte».
Una domanda lo ha sollecitato sul tema dell’opportunità o meno di introdurre anche in Italia la possibilità di depositare un’opinione dissenziente per il giudice contrario alla decisione presa a maggioranza dalla Corte (in Italia la decisione della Camera di consiglio esce sempre unanime): «Ero amico di Scalia (noto giudice della conservatore della Corte suprema statunitense ndr). Io anche se la penso diversamente sono capace di essere amico dei conservatori, non sempre vale il reciproco (allusione alla critica di Giorgia Meloni che ha portato alle dimissioni di Amato dalla Commissione algoritmi?). Scalia non «appena si trovava in disaccordo stava nel suo e meditava la dissenting opinion ed evitava la fatica del mettersi d'accordo: il mondo oggi soffre di opinioni che non incontrano e la democrazia soffre. Ci manca il parlare tra noi alla ricerca di un punto di intesa, salviamolo almeno nella Corte costituzionale».
Un’altra domanda ha chiesto delle due precedenti decisioni della Corte che hanno messo paletti e poi invitato il Parlamento a legiferare entro una certa data, come nel caso del suicidio assistito: «Dopo 18 anni in Parlamento non attribuisco a “lavativismo”: è difficile decidere per il Parlamento su temi ad alta rilevanza etica, perché ciascuno risponde a elettori di una parte sola. Alla Corte, invece, arriva il caso e noi dobbiamo decidere mentre il Parlamento può fermarsi sulle posizioni inconciliabili di chi dice: “la vita è indisponibile perché è dono di Dio” e quella di chi sostiene: “La vita è mia, voglio deciderne senza limiti”. Con quelle decisioni abbiamo creato un’interazione, dicendo ai legislatori: “noi fin qui possiamo arrivare, il resto dovete metterlo voi”. Indichiamo il punto cui potremmo arrivare, poi sospendiamo il giudizio per un anno e vi lasciamo il tempo: non si tratta di postergare l’efficacia della decisione ma solo il giudizio. Occorrerebbe un’interazione più forte, quando non c’è si finisce sempre insoddisfatti: in tempi difficili di politica radicalizzata, il rischio per le Corti se superano il confine di essere messe alla gogna come partigiane è angoscioso. Io sono convinto che la Corte Costituzionale italiana abbia fatto il massimo senza superare il confine. Davanti a questa situazione, le Corti costituzionali più diverse dicono ai cittadini: “Non ci lasciate sole, non permettete che veniamo etichettate per quello che non siamo": perché se poi la Corte perde la sua legittimazione, il sistema democratico perde un'istituzione fondamentale”».
IL GIORNO DOPO LE SCUSE DEL DAP
Il giorno dopo mercoledì 7 febbraio alla Camera il capo del Dap, il magistrato Giovanni Russo, ha informato che «c’è stato evidentemente un fraintendimento sui tempi, ho appreso dalla stampa e dal Garante locale dei detenuti che una verifica preventiva delle attività era stata fatta. Non lo so, non mi era stata data evidenza, mi scuso per l’Amministrazione se c’è stata una nostra negligenza. Sono stato informato cinque giorni prima che era pronta questa attività e, come per tutte, ho chiesto di rinviarle sempre, per consentire a me e agli altri soggetti politici di darne informazione scritta. La questione del presidente Amato è tema che mi ha turbato. Io e il Dap riteniamo un privilegio che il presidente emerito della Consulta venga a parlare con i detenuti e la Polizia penitenziaria».