“Una pagina bianca che sia di augurio per tutti noi, per potere ripartire da qui! Perché lo splendore della luce vince sempre sul nero dell'anima. Di questa speranza ne ho fatto la mia ragione di vita! Per queste ragioni è una giornata unica e importante che chiude un cerchio e ci libera dalle paure. Oggi piango di felicità e di orgoglio e queste lacrime le dedico a mio padre, a tutte le famiglie delle vittime che sono morte a causa di questo criminale, a tutti tutti i Siciliani, e ancor di più a tutti i Castelvetranesi che oggi posso davvero ritenersi liberi da un’ombra che li ha tenuti sempre nel buio. Grazie Stato”. Commenta così sui social l’arresto di Matteo Messina Denaro, Giuseppe Cimarosa nipote del boss mafioso, figlio della cugina di primo grado.
Giuseppe che, dopo l’arresto del padre Lorenzo, quando ha saputo che avrebbe collaborato con la giustizia, ha rinunciato al programma di protezione ed è rimasto a vivere a Castelvetrano. Della sua vita e della presenza costante della paura ci raccontava nel 2015 in una lunga intervista che riportiamo di seguito.
Lo raggiungiamo al telefono dopo la notizia della cattura; il sollievo è indescrivibile: «È come se in tutti questi anni avessi trattenuto il fiato, avessi vissuto in apnea… ancora devo realizzare quanto è accaduto. Per me, mia madre e mio fratello era il mostro, la persona che temevano. Mi spaventa sapere che era dietro casa nostra».
Rispetto al fatto che Messina Denaro sia sempre stato così vicino a casa in questi lunghi trent’anni di ricerche esprime poi le sue perplessità: «Campobello di Mazara è un paesino ancora più piccolo di Castelvetrano, dove tutti sanno tutto di tutti. Almeno che dicano che avevano paura, li capirei di più. Non si era nemmeno cambiato i connotati; manco in un romanzo di Pirandello».
In merito all’ipotesi, invece, che si sia consegnato perché ha già pronta la sua successione non ci crede: «Ha dovuto scegliere se morire di cancro o rischiare e farsi curare. L’alternativa era morire».
Ripubblichiamo l’intervista che uscì nella primavera del 2015 su Famiglia Cristiana.
Castelvetrano è una cittadina di 35 mila abitanti in provincia di Trapani, immersa in un paesaggio mozzafiato che confina con il parco archeologico e degrada fino al mare. Città del pane, di Selinunte e dei templi, eppure, per tutti, è il paese di Matteo Messina Denaro, il quartier generale di uno dei boss mafiosi più noti, latitante da oltre vent’anni.
DARE VOCE ALLA LOTTA.
Giuseppe Cimarosa, 32 anni, è un suo parente, figlio della cugina di primo grado. «Mia madre lo vide l’ultima volta per il suo matrimonio 33 anni fa, io non ero ancora nato». La sua fortuna è di non portare lo stesso cognome, anche se il padre… «Mio padre Lorenzo venne arrestato la prima volta quando avevo quindici anni. Ricordo ancora che per la vergogna e la rabbia andai da lui in carcere e gli dissi: “La prossima volta non mi vedrai mai più”». Giuseppe era cresciuto in una famiglia con sani principi, «tra i miei e mia nonna, circondato dagli amici del liceo che erano lontanissimi da tutto ciò». Avrebbe voluto omologarsi al bene, «a quella società buona, ma avevo un padre in carcere e non potevo. Nacque così un conflitto aperto con lui che, per proteggermi, non mi poteva dire il perché di quanto accaduto, ma io non digerivo di non capire. Sapevo di non volere quello da mio padre, ma non sapevo cosa chiedergli. Ora capisco che non aveva scelta, era vittima di un meccanismo. Allora pensavo solo a odiarlo e ad allontanarmi da lui».
Il 13 dicembre del 2013 la storia si ripete. Nel corso dell’operazione Eden, tra le 29 persone fermate perché vicine a Matteo Messina Denaro c’è anche Lorenzo Cimarosa. Per Giuseppe la notizia è inaccettabile. Lui che, nel frattempo, a 21 anni si era trasferito a Roma: «Lì non riuscivo a esprimermi, ero in conflitto con papà. La capitale mi ha accolto come una madre», per studiare Archeologia, «tutto ciò che faccio e amo nasce dal legame con la mia terra di origine». Ma tre anni fa Giuseppe ha sentito all’improvviso la necessità di tornare a casa: «Ho aperto una scuola di equitazione. Data la mia passione per il teatro equestre, cerco di avvicinare adulti e bambini a questo mondo, fatto di emozioni tra uomo e animale. Come il centauro, massima espressione del teatro e della comunicazione emotiva».
IL GIORNO PIÙ BELLO DELLA VITA.
I primi mesi dopo il secondo arresto del padre per Giuseppe sono infernali. «Ero arrabbiatissimo, ciò che aveva fatto mio padre sporcava anche me. Tutto ciò era solo schifo. Io ero conosciuto e riconosciuto per quello che valevo, per le mie attitudini da cavaliere, per il teatro, cose costruite con fatica. E mio padre era una minaccia al mio mondo. Andai da lui pensando di lasciare tutto e tornare a Roma. Di vomitargli addosso il mio disgusto. E, invece, mi disse che stava collaborando con la giustizia. Io l’ho abbracciato e ho pianto. Con un gesto aveva annullato i 30 anni passati. Aveva fatto l’unica cosa che poteva per non farci tritare da questa macchina che distrugge tutto: persone, sogni e dignità».
Giuseppe senza pensarci si schiera con lui. «Ci chiese se volevamo entrare nel programma di protezione. La risposta mia, di mio fratello piccolo Michele e di mia madre Rosa fu: “No!”. Con un po’ di incoscienza e la consapevolezza che l’alternativa sarebbe stata altrettanto terrificante: andare via dalla terra, cancellare i legami di parentela e di spirito. All’unanimità abbiamo scelto di rimanere per non rinunciare alla nostra identità. Noi non dobbiamo difenderci».
Una lotta interiore quella di Giuseppe, che quel giorno cambia di segno; «Mi aveva fatto il dono più grande: la libertà di parola e di pensiero. Dire ciò che penso. Così decisi di usare quel dono e offrirlo alla società. Raccontando questa storia a tutti perché io e tutto ciò diventassimo un segnale di svolta». Dopo aver contattato le
associazioni antimafia, un giorno del febbraio scorso Giuseppe sale sul palco della Leopolda siciliana a Palermo e, davanti a migliaia di persone, fa sentire la sua voce: «Sono un parente di un mafioso che ha deciso di scagliarsi contro i mafiosi. Vivo a Castelvetrano e sto soffrendo parecchio». E ancora: «Io e la mia famiglia non abbiamo accettato il programma di protezione perché non si deve accettare la paura delle ripercussioni come alibi». Nel
pubblico c’è gente che piange. La paura, oggi, fa parte della sua vita. Poco tempo dopo ha trovato morto il cavallo preferito, quello che monta e che porta il nome del padre, Lorenzo. «Morto per una colica, ma non nego che abbiamo pensato a un avvertimento. Ho preferito, però, tenermi il dubbio piuttosto che averne la certezza. Mi aiuta a gestire la paura. Fai un compromesso: prendi la paura, lasci la distanza con tuo padre e ti tieni te stesso». Una chiamata a cui non ha potuto negarsi: «È come essere nel mezzo di una battaglia con un’arma determinante. Che fai? La butti o la usi? La mia coscienza mi costringe a usarla. Raccontando la mia storia nelle scuole e ovunque».
Giuseppe continua a vivere a Castelvetrano con la famiglia, quella di origine e quella “nuova”, l’associazione Equus, compagnia della luce. Intorno a lui, infatti, si sono strette tante persone unite dalla passione per i cavalli e pronte a lottare per la stessa causa. Ma non vuole sentirsi chiamare eroe: «Non ho fatto niente di speciale. Io sono un sognatore e un artista. Il silenzio sarebbe stata un’afflizione eterna con cui non potevo convivere».