Il disegno di legge in otto articoli della riforma della Giustizia targata Carlo Nordio (che tocca il diritto processuale e sostanziale e che si innesta sull’impatto oneroso non ancora assorbito della recente riforma Cartabia) è approdato in consiglio dei ministri la mattina successiva alla celebrazione del funerale di Stato di Silvio Berlusconi e non si fa mistero nella maggioranza di volerla porre in continuità se non proprio a titolo di tributo, come pure s’è detto. I contenuti trovano nell'arco parlamentare, almeno nelle dichiarazioni a margine, il sostegno della maggioranza com'è ovvio, di Azione e Italia viva e il dissenso di Pd e Movimento 5 Stelle.
APPELLO DEL PM, IL PRECEDENTE PECORELLI
Il primo elemento di continuità con precedenti governi targati Forza Italia viene proprio con l’articolo emerso solo nelle ultime ore che si propone di restringere le possibilità per la Pubblica accusa (Pubblico ministero e Procura generale) di presentare ricorso in appello contro le sentenze di proscioglimento. È tra gli articoli quello che sulla carta pone più problemi: se infatti la decisione di allargare o restringere il ricorso in appello delle parti rientra nel novero delle scelte politiche, dunque in capo a chi ha la maggioranza (fatto salvo il ricorso in Cassazione avverso ai provvedimenti dell’autorità giudiziaria e di restrizione della libertà personale, sempre garantito dalla Costituzione), la questione specifica affrontata nel Ddl ha un precedente nella cosiddetta Legge Pecorella dichiarata incostituzionale dalla Consulta nel 2007. Allora si tentò di abolire la possibilità di appello da parte delle Procure contro tutte le sentenze di proscioglimento senza limite alcuno. Nel Ddl attuale, il limite riguarda soltanto le sentenze su reati per cui è ammessa la citazione diretta in giudizio, (articolo 550 codice di Procedura penale): «contravvenzioni ovvero di delitti puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a quattro anni o con la multa, sola o congiunta alla predetta pena detentiva». Nelle intenzioni di chi lo propone questo limite dovrebbe evitare di incorrere nuovamente nel giudizio negativo della Consulta. Ma il precedente può pesare.
Va detto che da sempre il ricorso da parte della pubblica accusa riguarda una esigua minoranza dei processi che sopravvengono in Corte d’Appello: nel 2016 i ricorsi da parte del Pm erano l’1,4% dei ricorsi in Corte (contro il 98,6% dalle difese) e il 2,9% da parte della Procure generali. Numeri piccoli, in progressiva costante diminuzione dal 2012. Il tentativo di verificare se la tendenza sia proseguita negli anni successivi non ha avuto buon esito per mancanza di dati disponibili, carenza ripetutamente denunciata anche da chi studia le performance del sistema giustizia presso il Centro Nazionale delle ricerche.
TRE GIUDICI PER LA CUSTODIA CAUTELARE IN CARCERE
Un’altra modifica, sempre procedurale, riguarda la modalità con cui si dovrà decidere sulla custodia in carcere prima del giudizio, ossia sulla più afflittiva delle misure cautelari che incidono sulla libertà personale. Per decidere se in caso di pericolo di fuga, reiterazione del reato o inquinamento delle prove sia necessario disporre il carcere non basterà più la decisione di un singolo giudice ma servirà un collegio di tre (non così per i domiciliari e le altre misure meno restrittive e neppure durante le procedure di convalida di arresto e fermo dove c’è un carattere di urgenza). L’ottica è chiaramente garantista e qui le riserve non sono di merito ma molto pragmatiche: di numeri, di risorse. Il Codice di procedura penale prevede infatti che se un giudice si è pronunciato una volta in una fase del procedimento (per esempio in udienza preliminare) non potrà più decidere né da solo né in collegio nelle fasi successive, per reciproca incompatibilità tra le funzioni di Gip/Gup, giudice di merito monocratico e collegiale.
Questo aspetto pone un problema pratico di non facile soluzione negli uffici piccoli con pochi giudici in organico che potrebbero rischiare la paralisi dei processi impegnando nella fase cautelare tre giudici anziché uno non potendo contare su un numero sufficiente di persone da far ruotare, specie in un momento in cui la maggioranza si dice favorevole a riaprire gli uffici più piccoli accorpati dalla Legge Severino pochi anni fa. Per ovviare a questo rischio, questa decisione già nel Ddl è dilazionata di due anni, per dare il tempo di assumere nuovi magistrati, aumentandone l’organico di 250 unità, un organico che però già oggi si misura con numerose scoperture. Tra l’altro su quel fronte il problema è simile a quello che si verifica tra i medici: formare e selezionare un magistrato tra università, procedure concorsuali e tirocinio è un lavoro piuttosto lungo e non sempre i concorsi riescono a coprire tutti i posti messi a bando.
CONTRADDITTORIO PREVENTIVO
Qualche dibattito nel merito – per il timore da verificare alla prova dei fatti che l’aggravio procedurale e il preavviso favoriscano i concretizzarsi di qualche pericolo di fuga - sempre in tema di misure cautelari, suscita il nuovo principio del contraddittorio preventivo: la nuova norma prevede che l’indagato sia sottoposto a interrogatorio di garanzia prima che la misura sia applicata, con un preavviso di giorni e deposito preventivo degli atti con possibilità per le difese di averne copia. Il Ddl esclude da questa novità i casi in cui è necessario procedere a “sorpresa” per non vanificare l’effetto della misura perché si darebbe il tempo a chi intende fuggire o inquinare le prove di organizzarsi e questo dovrebbe rassicurare chi teme un moltiplicarsi di fughe, ma si tratta di valutare poi la prova dei fatti, la tenuta. In tutti gli altri casi la mancata applicazione delle nuove norme, darà adito ad atti nulli ai fini del processo.
INFORMAZIONE DI GARANZIA PIÙ GARANTISTA
Tra le scelte più condivise c’è un rafforzamento di tutela della persona in fase di informazione di garanzia, l’avviso che giunge all’indagato: lo si irrobustisce a garanzia dell’indagato, che dovrà essere sommariamente avvisato di quanto gli viene contestato, evitando il più possibile il ricorso alla polizia giudiziaria, in modo da meglio tutelare dal danno di immagine le persona sottoposta a indagini.
INTERCETTAZIONI, DIVIETO DI PUBBLICAZIONE TRA RILEVANZA PENALE E INTERESSE PUBBLICO
Un tema che fa discutere soprattutto al di fuori dell’ambiente giudiziario è quello che riguarda la riforma delle intercettazioni: il decreto non prevede restrizioni nell’utilizzo per fini di indagine e processuali che restano come sono, ma mette un ulteriore limite alla pubblicazione dopo quello già stringente della riforma Cartabia: qui non è in gioco dunque la possibilità di fare indagini più o meno penetranti, le cui regole restano quelle che sono, ma il diritto del cittadino a esserne informato e il dovere del giornalista di informare: il diritto di cronaca insomma. Si vieta infatti la pubblicazione anche delle intercettazioni riassunte non più segrete in quanto depositate alle parti, a meno che non siano contenute nella motivazione di un provvedimento di un giudice o utilizzate in dibattimento. Si amplia l’obbligo di vigilanza del Pm sulla redazione dei brogliacci di polizia e il dovere del giudice di stralciare le intercettazioni. Nella richiesta di misura cautelare non devono esserci dati personali di terzi diversi dalle parti a meno che questo non sia indispensabile alle indagini. La restrizione riguardo alla pubblicazione ha suscitato reazioni sia da parte dell’Ordine dei Giornalisti sia da parte della Federazione nazionale della Stampa che scrive: "In tema di pubblicazione del contenuto delle intercettazioni l'unico criterio di riferimento deve essere l'interesse pubblico a sapere, il diritto dei cittadini a essere pienamente informati, come ha ribadito in più sentenze anche la Corte europea dei diritti umani». Il tema chiama in causa il fatto che l’interesse pubblico di una notizia può non essere coincidente con la sua rilevanza penale e processuale e i rispettivi ruoli di giudici e giornalisti: potrebbe verificarsi il rischio che, dando al giudice il potere di decidere da solo che cosa debba diventare pubblico, venga meno la possibilità per la libera stampa di funzionare da “cane da guardia” per l’operato della magistratura a tutela del cittadino sottoposto all’attività giudiziaria. Ci sono principi costituzionali da bilanciare, tanto più che si intende escludere che terzi rispetto alle parti possano accedere ad atti giudiziari.
TRAFFICO DI INFLUENZE E ABUSO D'UFFICIO, CHE COSA CAMBIA
Il traffico di influenze viene riformato: una norma che anche nella sua formulazione attuale ha suscitato tante critiche da parte degli addetti ai lavori per la sua difficoltà di applicazione. La nuova norma restringe il campo, nelle intenzioni porta a punire solo le condotte più gravi, per le quali alza le pene minime ma esclude la punibilità delle vanterie, tenendo conto anche delle ultime pronunce della Cassazione. La norma che più suscita dibattito, anche da parte della magistratura, è la cancellazione dell’abuso d’ufficio, per il cui il decreto ha chiesto l’abolizione tout court, prendendo atto del fatto che c’è una sproporzione reale tra il numero di indagini che si aprono e il numero di processi che si concludono con una condanna. Tra la possibilità di meglio tipizzare il reato e quella di abolirlo si è scelta la soluzione più tranchant, ma c’è chi teme che con un codice degli appalti che aumenta le assegnazioni senza gara e quindi il controllo preventivo, un combinato disposto con l’abolizione dell’abuso d’ufficio a posteriori possa concorrere a una deregolazione troppo spinta e a favorire meccanismi di assegnazioni di commesse pubbliche poco trasparenti.
IL MINISTRO E I MAGISTRATI, DOVE FINISCE IL DIRITTO DI PAROLA?
Proprio le critiche giunte dall’Associazione nazionale magistrati hanno suscitato la reazione del ministro della Giustizia Nordio che ha affermato in Consiglio dei ministri che: «I magistrati non possono criticare le norme», perché sarebbe «un’interferenza» nelle prerogative di un altro potere. In realtà non tutte le fonti anche addette ai lavori convengono su questa interpretazione. Da tempi non sospetti, c’è una sentenza del 1981, la Corte Costituzionale riconosce al magistrato il diritto a esprimere la propria opinione nell’ambito dell’articolo 21 della Costituzione fatti salvi i doveri di indipendenza e imparzialità. Invervenendo all’incontro Justice et liberté d’expression - La liberté d'expression des magistrats et ses évolutions récentes sur les réseaux sociaux, organizzato dall'Ecole Nationale de la Magistrature (ENM) e dal Conseil supérieur de la magistrature (CSM), con il sostegno dell'Unione europea, un anno fa, Francesco Buffa consigliere della Corte di Cassazione analizzando la libertà d’espressione del magistrato alla luce della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, citando la giurisprudenza Cedu, affermava sullo specifico tema: «In applicazione dei principi di democrazia e pluralismo, i giudici o i gruppi di giudici possono, in qualità di esperti legali, esprimere riserve o critiche sulle proposte legislative del Governo, senza che ciò pregiudichi l'equità dei procedimenti giudiziari a cui tali proposte potrebbero applicarsi. Una tale posizione, solo se espressa in modo appropriato, non getta infatti discredito sull'autorità della magistratura né ne compromette l'imparzialità».
Quanto basta per lasciar ritenere il dibattito è aperto.