Tra le tante parole pronunciate nelle relazioni dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario 2017 in Cassazione ha fatto notizia l’accenno del Primo presidente Canzio al cosiddetto processo mediatico. Un invito alla sobrietà a Pm e avvocati il suo, letto da molti come una sana autocritica della magistratura contro il rischio delle fughe di notizie e contro il pericolo di dare il “la” a processi prematuri e sommari sui media prima che in aula.
Ben vengano quelle parole, sono un sano invito alla sobrietà che fa bene a tutti. Perché il processo mediatico, quando tarato più sull’emotività che sulla comprensione dei fatti, è un problema reale, che rischia di generare confusione nella cittadinanza e di esercitare una pressione indebita sul processo reale. Anche se va detto, e il presidente Canzio lo sa bene quanto noi, che il “processo mediatico” è l’esito di molti fattori e che il primo di questi, al momento ineliminabile, è la distanza siderale (destinata ad allargarsi) tra i tempi della giustizia e quelli dell’informazione: i processi durano anni, le notizie con Internet ormai vivono poche ore, e, per quanto auspicabile dal punto di vista del giudice che deve decidere, sarebbe impensabile un silenzio che duri anni su fatti di interesse pubblico e su atti ormai pubblici in quanto noti alle parti.
E ci si chiede se non abbia ragione Luigi Ferrarella, tra i più esperti e corretti cronisti giudiziari, quando ripete che consentire alla stampa di accedere in tutta trasparenza, e in modo identico per tutti, agli atti non più formalmente segreti, potrebbe essere un antidoto contro i rapporti interessati tra media e singoli avvocati e Pm. Una questione anche di trasparenza e di controllo, se è vero che la riforma del Codice di Procedura penale del 1989 ha scelto di uscire dal procedimento inquisitorio precedente molto più segreto, anche per meglio garantire gli imputati. Non solo, quanto ci vorrà perché, accanto alla comunicazione di un dispositivo di sentenza, i giudici diano almeno una traccia scarna del ragionamento su cui poggia la decisione? Sarebbe già un grande aiuto per i media ed eviterebbe le illazioni che, in casi di interesse pubblico, sempre si frappongono tra la pronuncia di assoluzione e di colpevolezza e le motivazioni che arrivano 90 giorni dopo. Si tratta di bilanciare l’articolo 21 della Costituzione (libertà di informazione e diritto dei cittadini a essere tempestivamente informati) e articolo 111 (diritto al giusto processo e alla presunzione di innocenza): il farlo implica (implicherebbe) un maggiore senso di responsabilità da parte di tutti (magistrati, avvocati, giornalisti, conduttori dell’intrattenimento televisivo, pubblico).
Anche del pubblico sì: perché finché chi legge e ascolta, in tema di giustizia, continuerà a premiare le emozioni forti anziché lo sforzo di spiegare le cose, avremo sempre trasmissioni Tv che alzano il tasso dell’emotività e parti del processo che vi si prestano, fino alla degenerazione (è capitato) di avvocati che trattano “prezzi” di ospitate televisive e/o interviste per parenti di persone coinvolte a vario titolo in processi che fanno audience.