«Negli ultimi dieci anni ci sono state 8.000 richieste di risarcimento per ingiusta detenzione. E ben 2.500 sono state accolte. È un numero enorme. Ma la legge attuale non consente un adeguato risarcimento perché fissa il tetto massimo in 516 mila euro. Noi chiediamo l’abolizione di questo tetto, così come chiediamo, nel caso di errore giudiziario, che sia tolto il limite di tempo entro il quale si può avviare la causa di equa riparazione, che oggi è fissato in due anni dalla revisione del processo e dall’assoluzione».
A parlare è l’avvocato Gabriele Magno, fondatore dell’Associazione Nazionale Vittime Errori Giudiziari. L’associazione, spiega, è nata dieci anni fa, quando lui e altri avvocati e giuristi si sono resi conto che non esisteva alcuna realtà che tutelasse le vittime della giustizia. E, oltre all’errore giudiziario e all’ingiusta detenzione, si occupa anche di una terza tipologia di problemi: l’eccessiva lunghezza dei processi.
«La lunghezza ingiustificata dei procedimenti italiani ha già portato a 38 mila ricorsi», aggiunge l’avvocato Magno. «Se il processo è troppo lungo non è più giustizia. In giurisprudenza è cosa nota: un processo deve avvenire in aula e non solo sulle carte; dev’essere immediato, cioè a ridosso dei fatti; dev’essere ragionevolmente rapido. Se no è un processo ingiusto».
- Avvocato, perché l’Italia soffre da sempre di una giustizia lenta e inceppata?
«Perché, pur avendo inventato il diritto, ci siamo dimenticati di un suo caposaldo, che era già chiaro all’epoca dei romani: il precedente giudiziario è vincolante. È il principio su cui si basa la giustizia americana: la Corte Suprema emette 120 sentenze l’anno, ma tutti i tribunali e in tutti i gradi di giudizio vi si devono uniformare».
- E in italia, invece?
«I nostri riferimenti di giurisprudenza provengono dalle leggi. Il Parlamento legifera e il giudica deve applicare. Per farlo deve interpretare la legge. Le sentenze della Corte di Cassazione non sono vincolanti. Fanno giurisprudenza, ma ogni magistrato, ogni avvocato e ogni giudice trovano nella storia giurisprudenziale tutto e il contrario di tutto. La legge, poi, arriva spesso molto tardi rispetto al fenomeno che deve normare, e talvolta risulta inefficace già fin dal suo nascere. Ammesso che si faccia la legge...».
- Che cosa intende dire?
«Che il Parlamento spesso agisce in base a ragioni di maggioranze, di opportunità del momento politico, di convenienza di una parte o dell’altra».
- Come dev’essere la durata di un “processo giusto”?
«I tempi sono noti: 3 anni per il primo grado, due anni per il secondo, e 1 anno per la Cassazione, l’ultimo livello di giudizio».
- E invece?
«E invece basta guardare ai ricorsi alla casistica di condanne dell’Italia alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per vedere quanti processi, specie civili, durano quindici, venti, o anche oltre 25 anni. In Italia è diventato quasi normale che si fissi l’udienza successiva di un processo civile due anno dopo, talvolta anche tre. Come si può aver fiducia in una giustizia che lavora con questi tempi?»
- Negli ultimi anni ci sono stati alcuni casi di risarcimenti clamorosi, di milioni di euro…
«È vero. Riguardano processi di equa riparazione per errori giudiziari (il risarcimento nel caso del vero e proprio errore si chiama così). Ad esempio, il “caso-Barillà”, uno dei casi storici di cui si è occupata l’associazione, ha ottenuto il risarcimento di 4,6 milioni di euro. In quella vicenda, oltre all’errore giudiziario, c’era il problema di 5 anni e mezzo di ingiusta detenzione. Ma la vera novità è che per la prima volta era stato accolto dal giudice il concetto di risarcire il danno esistenziale, ossia le conseguenze pesantissime subite dalla vittima dell’errore che ne peggiorano definitivamente la qualità della vita. Il danno esistenziale va ad aggiungersi agli altri: danno morale, biologico, e via dicendo».
- Qual è la vostra posizione? Che siano i magistrati in prima persona a pagare l’errore?
«No, noi non siamo del “partito anti-magistrati”. Anzi, pensiamo che la contrapposizione non aiuti affatto la giustizia. La nostra posizione è equilibrata: i magistrati possono sbagliare, come tutti; non ci interessa di punire i magistrati, ma che venga risarcita la vittima e riabilitato il suo buon nome. Pensiamo, tra l’altro, che di fronte al rischio dell’indenizzo, il magistrato si autolimiterebbe e porrebbe molta attenzione nel prendere certi provvedimenti».
- Non c’è il rischio di limitare l’autonomia della magistratura?
«L’ultima cosa che vogliamo è limitarne l’autonomia, che è uno dei capisaldi della giustizia. Il magistrato è e deve rimanere autonomo».
- È sempre del giudice la colpa dell’errore?
«Per la mia esperienza no. Lo è nel 50 per cento dei casi, l’altro 50 è di noi avvocati. Sapesse quanti ne vediamo commessi dai colleghi: ricorsi dimenticati, scelte difensive sbagliate, errori procedurali. Tanta giustizia ingiusta viene anche da scarsa preparazione di una parte della nostra categoria».
Una sentenza che arriva dopo 15 o 20 anni si può ancora definire giustizia? E quando un "caso" viene sottoposto a cinque o sei gradi di giudizio, per via dei ricorsi e degli annullamenti della Cassazione, è ancora giustizia? E una causa civile che svolge un'udienza ogni due o tre anni e giunge a sentenza dopo 25 può ripagare la vittima del torto subito?
Secondo la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (Cedu) no di sicuro, tant'è che l'Italia da anni è ai primi posti per numero di condanne a causa della durata eccessiva dei processi. Nel 2007 ne aveva 2.900 pendenti davanti all'organismo di giustizia europeo. «Negli ultimi cinque anni», aveva scritto l'Eurispes nell'ultima sua indagine sulla giustizia in Italia (del 2009), «è stato esponenziale l'incremento (800%) dei costi sostenuti dall'Erario (pari a 41,5 milioni di euro) per indennizzare i cittadini che hanno subìto cause senza fine». Sempre secondo l'Eurispes, negli ultimi 50 anni sarebbero 4 milioni gli italiani vittime di errori giudiziari e ingiuste detenzioni. Ma la possibilità di ottenere un risarcimento esiste solo dal 1992, quando è stata approvata la legge che lo disciplina (poi rivista nel 1999, con un aumento dei tetti di risarcimento).
Uno studio pubblicato dalla Consulta europea dei diritti dell'uomo nel 2005 elenca, invece, le condanne subite dal nostro Paese per via dei processi infiniti: le prime 40 riguardano procedimenti giudiziari durati da un minimo di 20 a un massimo di 28 anni, dei quali 38 sono processi civili.
Il quadro della situazione, o almeno il più recente, l'ha fornito nel febbraio scorso, l'allora ministro della Giustizia Alfano, che riporta i dati fino a giugno 2010, nella tradizionale Relazione sulla giustizia alla Camera dei Deputati. "Esattamente trent'anni fa", ha detto Alfano, "nel 1980, l'arretrato civile, già allora considerato grave, era pari a 1.394.826 procedimenti. Nel 1990 cresceva a 2.414.050, incrementato in media da circa 100 mila fascicoli in più ogni anno. Nel 2000 raggiungeva il traguardo di 4.896.281 procedimenti ed infine, il 31 dicembre 2009, si avvicinava alla soglia dei 6 milioni, segnando il record assoluto di 5.826.440 di arretrato pendente".
"Ebbene", ha aggiunto ancora il ministro, "dopo lustri di inesorabile aumento della pendenza dell'arretrato, gli uffici della statistica del Ministero hanno registrato quest'anno un risultato clamoroso e straordinario che, negli ultimi trent'anni, si è manifestato una sola volta, in modo analogamente marcato, e cioè il numero dei processi civili pendenti, nel giugno del 2010, è sceso del 4%, arrivando a 5.600.616 rispetto all'anno precedente, con una diminuzione pari a meno 223.824 procedimenti, cosa che finalmente marca una decisa inversione del trend negativo che vi ho appena ricordato."
C'è da sperare che questo nuovo trend di diminuzione dell'arretrato continui. Resta però da ricordare un altro dato negativo: il numero di posti vacanti nei Tribunali e nelle Procure della Repubblica: "A fine 2010", ha detto ancora Alfano, "risultavano presenti in organico 9.036 magistrati togati, con una scopertura, come già detto, di 1.115 posti".
Condanna per duplice omicidio. Quindici anni di reclusione (su una condanna di 21) prima di vedere riconosciuta la propria innocenza. Anni di traversie giudiziarie prima di essere riabilitato dall’errore giudiziario. Quello di Domenico Morrone può essere considerato uno dei casi più emblematici della storia giudiziaria italiana.
Condannato Morrone, che si era sempre professato innocente; condannati per falsa testimonianza la madre e due vicini di casa, che l’avevano difeso. Nessun giudice ha mai creduto loro, fino alla sentenza della Corte d'Appello di Lecce del 21 aprile 2006. Una vicenda incredibile. Per due volte la Cassazione aveva rinviato il processo alla Corte d’Appello perché Morrone aveva un alibi credibile, ma i giudici avevano ugualmente confermato la condanna. Quattro precedenti tentativi di revisione erano stati rigettati. L’uomo ha ottenuto finalmente la revisione del processo quando i suoi avvocati hanno trovato due pentiti che hanno rivelato la verità, indicando il responsabile del duplice omicidio: era stato commesso per vendicare lo scippo subito dalla madre dell’assassino la mattina stessa del delitto.
«Il “caso-Morrone”», spiega l’avvocato Claudio De Filippi, dell’Associazione nazionale vittime di errori giudiziari, «è emblematico anche perché vi si trovano tutti i gravi problemi del pianeta giustizia: la lunghezza spropositata dei processi, la responsabilità dei magistrati, la disastrosa situazione delle carceri».
Morrone ha subito sette gradi di giudizio, cinque revisioni, quindici anni di vita passati (in carcere) sotto l’infinita serie di procedimenti. «Quando i processi – civili, penali o amministrativi – durano più di quattro anni», continua De Filippi, «il cittadino può ricorrere contro il ministro competente (sia esso della Giustizia, della Difesa o dell'Economia) e chiedere il risarcimento. Qualora i cittadini italiani esperissero in massa tale rimedio, lo Stato sarebbe costretto dal debito pubblico giudiziario che ne deriverebbe, a riformare il pianeta giustizia».
Il risarcimento di Morrone, quando il processo per equa riparazione arriverà a conclusione, potrebbe essere record: tra gli otto e i dodici milioni di euro. Anche in questo caso per danno esistenziale, biologico, morale e patrimoniale. L'errore giudiziario gli ha rovinato la vita: oltre ai 15 anni di prigione, ha perso il lavoro, la fidanzata l’ha lasciato, non ha potuto assistere la madre, malata, quando aveva bisogno di lui. Ha subito lo stigma sociale per essere indicato come omicida.
La sua colpa: viaggiava con l'auto dietro quella di un vero boss. Imputato infatti in un processo a Milano per lo stesso episodio per cui è finito in carcere Barillà, è un pregiudicato milanese. Quello di Daniele Barillà è un caso clamoroso: s’è fatto sette anni in carcere per un “banale” scambio di persona. Un classico errore giudiziario.
Era stato condannato dalla Corte d’Appello di Firenze a 15 anni di reclusione, confermati in Cassazione, con l’accusa di essere personaggio di spicco della malavita milanese, implicato in un grosso traffico internazionale di droga. Ci sono voluti sette anni per ottenere la revisione del processo e l’assoluzione dalla Corte d’Appello di Genova, durante i quali il malcapitato era rimasto sempre in carcere, con condanna definitiva.
Barillà, titolare di un negozio di articoli elettrici nel milanese, era finito in carcere nell’ambito dell’operazione “Pantera”, condotta dai carabinieri del Ros di Genova nel febbraio 1992, in cui erano stati sequestrati 288 chili di cocaina. Il commerciante era stato arrestato mentre, alla guida di una Fiat Tipo rossa, viaggiava dietro la macchina di un boss milanese, che aveva a bordo 50 chili di cocaina che doveva essere trasportata a Nova Milanese. Barillà, in realtà, si era trovato casualmente sul tragitto, durante il pedinamento del trafficante, e guidava una vettura simile a quella di uno dei complici.
Ebbene, il calvario giudiziario dell’imprenditore si è conlcuso 11 anni dopo, ma con una sentenza altrettanto clamorosa: gli è stato riconosciuto un risarcimento record di quattro milioni di euro, perché per la prima volta il giudice che ha deliberato sul processo di equa riparazione ha riconosciuto non solo i danni morali, biologici e patrimoniali, ma anche il cosiddetto “danno esistenziale”, ossia il peggioramento della qualità della vita dovuta alla reclusione e le conseguenze personali e familiari dovute all’errore giudiziario.