Whatsapp è senza dubbio l’applicazione di messaggistica più usata nelle famiglie. È un modo che usano i genitori per comunicare con i figli, e gli studenti attraverso i gruppi classe si tengono aggiornati su compiti e lezioni. Ma una novità mette in discussione questo generico e quotidiano utilizzo. Con l'entrata in vigore del nuovo regolamento Ue sulla privacy (Gdpr), il 25 maggio prossimo, social e chat dovranno modificare le condizioni d'uso sul consenso al trattamento dei dati personali. L'articolo 8 del Gdpr prevede infatti che, per chi ha meno di 16 anni e vuole usare tali servizi, «un genitore o un tutore debba acconsentire a suo nome ai termini d'utilizzo». I singoli Paesi membri possono decidere autonomamente di abbassare il limite d'età fino ai 13 anni. Facebook, WhatsApp e Twitter si sono già adeguati alla norma europea, mentre altre app – da SnapChat a Signal passando per Telegram – devono ancora farlo. Già molte app impongono il limite di 13 anni per il loro utilizzo, divieto che però viene facilmente aggirato mentendo sull’età dell’utente. Secondo i dati Telefono Azzurro/Doxa del 2017, il 73% degli under 13 comunica abitualmente su WhatsApp. Mentre su Facebook il 44% dei giovanissimi mente sull’età per poter creare un profilo. A eccezione di una minoranza di genitori che vieta ai figli l’uso dello smartphone fino ai 14 anni di età, per la stragrande maggioranza non è un dato assodato che i figli utilizzino queste piattaforme. Whatsapp è la chat più gettonata al mondo, richiederà un'autorizzazione ai genitori di ragazzi tra i 13 e i 15 anni, ma solo nell'Unione europea. In mancanza dell'ok genitoriale, in teoria gli under 16 non potranno usare la chat. In pratica non è ancora chiaro come la app intenda controllare l'età dei suoi utenti europei. È possibile che si limiterà a chiederla, incassando le bugie dei più piccoli.
Un provvedimento questo destinato comunque a far discutere che sulla carta mina a mantellare un sistema diffuso e collaudato. Al di là dei divieti quello che appare più urgente è promuovere un utilizzo consapevole delle chat, vigilare su eventuali azioni di cyberbullismo e di sexiting di cui sono piene le cronache. C’è da chiedersi chi si debba far promotore di queste campagne educative, che riguardano sì i ragazzi stessi ma anche i loro genitori, che devono porsi come modello ed evitare eccessi e abusi. Si tratta anche di stabilire un patto educativo tra genitori e figli e coinvolgere anche la scuola, anche se da questo punto di vista lo sdoganamento da parte della ministra Fedeli dell’utilizzo dello smartphone in classe non è stato certo d’aiuto.