Sembra strano, a pensarci così d’acchito, che ci sia una
relazione tra la spiritualità e il gioco. Eppure è proprio la serietà del gioco
il tema che Sergio Givone, filosofo, professore di estetica ha scelto per il
suo incontro, nell’ambito del Festival Torino spiritualità. Il gioco come una
cosa seria ma anche come dimensione ludica, perché, quest’anno il festival si è
dato il sorriso come chiave di lettura: un bel modo di ricordare che la
spiritualità è, a sua volta, una cosa serissima, ma non necessariamente
seriosa.
Professor Givone, gioco e spiritualità potrebbero anche
essere percepiti come entità
distanti: hanno qualcosa in comune?
«In certi casi li pensiamo opposti: pensiamo al gioco come
un’evasione dalla serietà della vita. Al contrario concepiamo la spiritualità
come profondità, serietà. In questo senso si potrebbe addirittura contrapporli.
Io invece penso che sia proprio il contrario».
Se non è troppo complicato, proviamo a spiegare il perché
anche a chi non è abituato alla filosofia?
«Proviamoci. Quando io faccio esperienza estetica: vado al
cinema, assisto a uno spettacolo, vedo un’opera d’arte, a volte anche davanti a
toni molto cupi, sono portato a provare un’emozione che mi fa dire “sì, è
proprio così”. Non c’è nulla di oggettivo, è un fatto meramente soggettivo.
Eppure questo puro e semplice apparire di qualcosa, che pure non è reale, mi riempie
l’anima di commozione, mi convince, mi dà una certezza, più forte di qualsiasi
certezza dimostrabile scientifica o morale che sia».
In questo senso in
effetti sì potremmo
chiamarla esperienza spirituale. Lei dice anche che il gioco è una cosa seria.
C’era bisogna di ribadirlo?
«Basta guardare il bambini giocare. Lo fanno con una serietà
straordinaria, tanto che non c’è nulla che li turbi quanto l’interruzione di un
gioco coinvolgente. Anche gli adulti sono seri quando giocano: tendiamo a
scordare che nel gioco non c’è solo evasione ma anche la messa in gioco di cose
importanti. Si pensi al gioco d’azzardo in cui si rischia il patrimonio, allo
sport d’alto livello in cui si affronta una sfida al limite delle proprie
capacità, provando a dimostrare a sé stessi prima che agli altri di essere
all’altezza, se si tratta di sport estremi si mette in gioco addiritura la
vita. È vero che tutto questo
avviene in un contesto di gioco, cioè di leggerezza e di libertà perché nessuno mi obbliga a giocare, in un ambito che non riguarda la realtà, ma l’apparenza,
semmai una rappresentazione della realtà frutto della fantasia, eppure se il
gioco mi coinvolge, mi emoziona a fondo, mi impegna fino a giocarmi
l’autostima, la valutazione che do di me, devo ammettere che nella sua finzione
il gioco è una cosa seria. Io ho l’impressione che i bambini lo sappiano
benissimo»
C’entra in questa serietà, il fatto che il gioco preveda un sistema di regole? «Assolutamente sì, il gioco è fondato da un sistema di regole. Chi le trasgredisce viene percepito come un disturbatore. Se si violano le regole il gioco finisce e finisce male. Chi bara distrugge il gioco, non è degno di giocare. Tanto più le regole sono severe, tanto più il gioco acquista quella leggerezza che è proprio di un’esperienza che ha al fondo la libertà. Quando giochiamo, nelle regole, siamo come liberati dalle costrizioni della vita quotidiana».
Vale anche per quel gioco per interposta persona che chiamiamo tifo, in ci si immedesima a fondo, irrazionalmente nel gioco altrui?
«Ci sono giochi in cui rischiamo qualcosa, il gioco d’azzardo, lo sport attivo, e quelli in cui non rischiamo niente, la visione di un film, di un’opera d’arte. Allo stadio si rischia solo quando il gioco esce dalle sue regole per diventare rissa e sconfinare dalla finzione alla vita vera, facendo saltare appunto le regole del gioco. Ma quello non è più gioco è un salto in un’altra dimensione. Vale, però, per tutti i giochi il fatto che uno mette in gioco sé stesso: è l’unica spiegazione di quella cosa irrazionale che il tifo sportivo, per cui uno per una partita giocata da altre prova emozioni così violente da sentirsi in paradiso o all’inferno a seconda che la sua squadra segni o subisca un gol. Come in tutte le cose irrazionali c’è una logica: il mettere in gioco sé stessi come davanti al tavolo d’azzardo vuol dire che ci si identifica al punto che perdere vuol dire perdere sé stessi. Il gioco, sempre, è il luogo in cui mettiamo in chiaro con noi stessi quali forze, anche a noi sconosciute, si agitano in noi, il fatto di tornare bambini. La partita, per chi la gioca e per chi la guarda, può essere liberatoria. Se però degenera in rissa diventa una guerra, diventa distruttiva. In questo i bambini sono più seri degli adulti. Sanno rappresentare la guerra nel gioco e dopo fare pace. Gli adulti che fanno la guerra sono bambini che hanno disimparato a giocare».
La nostra attualità tende ad attribuire alla parola gioco i suoi significati deteriori (gioco d’azzardo, futilità…). Anche questo è un segno che abbiamo disimparato a giocare?
«Temo di sì. Diciamo troppo spesso ai nostri bambini: smetti di giocare. Se avessimo chiaro il significato del gioco incoraggeremmo i nostri bambini a giocare e troveremmo per noi più spazi di gioco. Non solo, giocheremmo nelle situazioni più serie della vita, ritroveremmo lì quella libertà che rende la vita degna di essere vissuta e che il gioco ci insegna. Niente come il gioco ci insegna che cos’è l’arte. Di più, niente come il gioco ci insegna che cos’è la religione. Il Vangelo di Giovanni parla di “verità che ci fa liberi”, la verità soltanto seria non ci fa liberi, incatena. La verità che fa liberi è la verità che imparo giocando, quando accetto la serietà delle regole, non come un obbligo ma come un esercizio di libertà. In questo rientra la spiritualità. Non è un caso che ci sia una tradizione di santi giocatori. Si pensi alla tradizione medievale del Jongleur di Notre Dame, il fraticello, che prega la Vergine con la sua abilità di giocoliere. Alcuni confratelli lo accusano di blasfemia, ma i più profondi tra loro capiscono che nella perfezione del suo gioco c’è il suo modo di lodare Dio».