Volto tra i più celebri del grande e del piccolo schermo, ma anche voce tra le più calde e apprezzate, attore dotato di slanci capaci di farlo passare con facilità espressiva dal drammatico al comico, Giancarlo Giannini torna in televisione il 5 marzo, su Rai 2, con il film Un angelo all’inferno, per la regia di Bruno Gaburro. Con Giannini, Chiara Conti, Giorgia Wurth, Laura Adriani e Roberto Farnesi. Giannini interpreta il ruolo di capofamiglia: «Si tratta della storia di una famiglia in cui i due genitori hanno problemi con i figli, tossicodipendenti. Il padre non ne sa assolutamente nulla. Alla fine, però, la vicenda si risolverà positivamente. Molto semplice, dunque. Il tema del film è: datemi genitori migliori e vi darò un mondo migliore». Il popolare attore non è nuovo a ruoli per la televisione in cui si approfondiscono temi a sfondo sociale “forti”, avendo in passato già affrontato lavori che trattavano problemi come l’alcolismo, per esempio. Il film, prodotto da Nuova Media Italia, è stato girato in Veneto e patrocinato dal ministero della Salute con la partecipazione della Regione Veneto, dell’assessorato alle Politiche sanitarie e
sociali e con la collaborazione delle Ulss e delle aziende ospedaliere venete. «Sì, una gradevole esperienza», dice Giannini, «anche se preferirei fare qualcosa di ancor più impegnativo, ma il periodo non è dei migliori».
Sembrerebbe un po’ giù di tono…
«Sono scontento di come vanno le cose nel Paese e nel mio mestiere. È difficilissimo realizzare un film e quelli italiani escono male, hanno una cattiva distribuzione; insomma, non c’è da essere felici della situazione che viviamo. A questm punto è comprensibile che ogni tanto mi passi l’entusiasmo. Mi affido alla speranza di lavorare con gli stranieri».
Perché?
«Perché qui abbiamo troppi problemi. Non parlo tanto per me che sono ormai... un anziano, ma per i giovani, a cui consiglio di andare fuori dall’Italia, a prescindere dal mestiere. Qui pagano poco; fuori, si guadagna tre o quattro volte in più. Soprattutto per noi attori diventa quasi impossibile lavorare». Lancia un grido d’allarme forte e chiaro. Altri colleghi, pur lamentando la situazione di crisi, sono meno caustici». Lei è molto duro con l’Italia
«Duro? Racconto la realtà, ma sono e resto ottimista. Per quello che riguarda il film, spero che vada bene. Il mio personaggio è un padre che ha problemi con la moglie e i figli, nonostante sia ricco e quindi dovrebbe soffrire meno di altri. Non riesce a capire le difficoltà dei figli. Un film che farà pensare».
Lei consiglia ai giovani di andare via. Qual è la differenza tra quello che faceva lei da giovane e la realtà di oggi?
«Era un modo di lavorare più disteso, c’era meno frenesia e meno pubblicità. Oggi si lavora solo in condizione delle entrate provenienti dalla pubblicità. E in
Tv c’erano registi straordinari come Sandro Bolchi o Anton Giulio Majano che sapevano perfettamente come usare la telecamera. Le scene duravano anche venti, trenta minuti di ripresa continua. Oggi
si girano dieci scene al giorno, è tutto più rapido e credo anche che il computer abbia portato via qualcosa all’anima del lavoro. E lo dico io, che sono perito elettronico industriale. Apparentemente non
dovrebbe esserci attinenza con il lavoro dell’attore ma in realtà in entrambe le attività si lavora di fantasia».
Si entra negli angoli personali di Giannini, quotidianamente alle prese con l’hobby delle invenzioni…
«Io devo fare sempre qualcosa, non posso stare fermo. Adopero molto le mani, un dono di Dio straordinario. Stamattina, per esempio, ho riparato il tetto di casa. D’altronde la scuola che ho fatto mi
ha insegnato tutto, a fare le cose pratiche ma anche la teoria, e mi è rimasta questa voglia di fare. Mi diverte, mi rilassa ed è una sfida con me stesso. Non viene il muratore? Non importa, faccio da me».
Una versatilità che ha trasferito anche nel suo mestiere: attore, doppiatore, regista…
«Non faccio distinzioni. È un modo come altri di applicare l’intelligenza. In più, il rigore mi è venuto da un’altra scuola, quella di aeromodellismo: metodo, pazienza, precisione. Non c’è molta differenza tra chi studia elettronica e chi studia recitazione. Se studio uno schema elettronico, non lo vedo, devo immaginarlo. E un personaggio lo devo costruire e immaginare prima di poterlo interpretare. Mi fanno ridere quelli che dicono: “Io sono diventato il personaggio”. Il personaggio lo raccontiamo, come una favola a un bambino. Da adulti, le favole non ce le racconta più nessuno e allora eccoci, noi attori, che raccontiamo favole per continuare ad alimentare la fantasia. Ai ragazzi dico sempre: studiate fino in fondo, perché se dovete fare una cosa va fatta bene; è come preparare gli spaghetti, o li fate bene o è meglio non farli. Fare le cose deve essere un piacere».
Progetti?
«Devo andare a Londra e ai Caraibi per una pubblicità americana. Per fortuna ci sono gli americani. In Italia c’è molta confusione. Comunque, il mio sogno, un giorno, è realizzare un film sulla fede,
mi piacerebbe tanto. La fede, il mistero. La cosa bella dell’uomo è che ha la sensazione di ciò che non sa, e se non ci fosse il mistero non avremmo un motore per essere curiosi della vita. Ecco, quello è il mistero, è la fede in qualcosa o qualcuno. Per me fede e mistero sono la stessa cosa. Proporre di questi tempi una cosa del genere è difficile. Ma non dispero».