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giovedì 10 ottobre 2024
 
AMERICA DEL SUD
 
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Amazzonia, gli indios e gli altri: il presepe di fratel Carlo

24/12/2017  Da oltre 50 anni fratel Zacquini, missionario della Consolata, vive e opera nelle foreste del Brasile dove ci sono grandi risorse che tutti vogliono depredare. «I bambini che qui nascono sulla nuda terra mi ricordano Gesù a Betlemme». Attesa e speranza per il Sinodo convocato dal Papa.

Tutte le fotografie di questo servizio sono di Nino Leto e di Roberto Giacone/Co.Ro.
Tutte le fotografie di questo servizio sono di Nino Leto e di Roberto Giacone/Co.Ro.

Del primo Natale in Brasile ricorda in modo particolare il caldo soffocante. «Era il dicembre 1965», racconta. «Boa Vista, la capitale dello Stato di Roraima, che oggi conta più di 324 mila abitanti, allora ne registrava poche migliaia. Neppure il Governatore aveva l'aria condizionata a casa e, comunque, l'energia elettrica era un lusso». Del primo Natale nella foresta amazzonica (1968) rammenta isolamento, tristezza e febbre. «Non riuscivo a comunicare con il resto del mondo neppure via radio. Ero arrivato tra gli Yanomami, sulle rive del rio Ajarani, prostrato dalla notizia della morte del confratello padre Giovanni Calleri, ucciso su mandato di chi non gradiva il suo impegno sociale in difesa dei diritti degli indios. E mi sono trovato a fare i conti con la prima delle 39 malarie che mi hanno afflitto».

Fratel Carlo Zacquini è un missionario della Consolata che ha vissuto la maggior parte dei suoi giorni dall'altra parte del mondo.  Nato in Piemonte, a Varallo Sesia, nel maggio 1937, è entrato in noviziato nel 1956 e ha emesso i voti perpetui il 2 ottobre 1960. Cinque anni dopo era già in Brasile. In Amazzonia, per la precisione. Lì ha più volte percorso in canoa gomitoli di fiumi pieni di piranha, coccodrilli e anaconda, o ha attraversato in lungo e in largo una vegetazione selvaggia, raramente ospitale, spesso ostile. Scene alla Robert De Niro o alla Jeremy Irons in The Mission. Con la differenza che era vita vera, non film. 

«L’Amazzonia e chi la abita sono tutto per me», confessa schiarendosi la voce. Il 2017 si chiude sulle parole del Papa all’Angelus, domenica 15 ottobre, quando Jorge Mario Bergoglio ha annunciato d’aver convocato a Roma, nell’ottobre 2019, un'assemblea speciale del Sinodo dei Vescovi per ragionare proprio di quella tribolata regione del pianeta. «Quando diciamo Amazzonia parliamo di un intreccio tra foresta e savana che abbraccia nove Stati: Guyana, Suriname, Guyana Francese, Venezuela, Ecuador, Colombia, Bolivia, Perú, Brasile», spiega fratel Carlo. «È un’area enorme, che misura circa 7 milioni di chilometri quadrati, qualcosa come 23 Italie messe una accanto all’altra. Rappresenta il 40 per cento dell’America meridionale, il 5 per cento dell’intero globo. Conta per quello che offre il suolo (alberi, corsi d’acqua, una biodiversità esemplare) e per quello che nasconde nel sottosuolo: oro, rame, tantalio, minerali ferrosi, nickel e manganese. Uno scrigno poco abitato, 33 milioni di persone in tutto, ma molto ambìto dall’industria estrattiva. Qui, da noi, è in corso una lotta per l’accaparramento delle risorse. A pagare sono l’ambiente, le persone (sono state censite 400 differenti popolazioni indigene) e i loro diritti».

Quel polmone malconcio della terra che è la foresta amazzonica non segnala particolari tradizioni natalizie. «Ma quante volte i bimbi Yanomami, che nascono per terra, per lo più soli con la loro mamma, mi hanno ricordato il Bambinello di Betlemme! Per loro, a Natale, niente panettoni. Semmai mangiano i piatti speciali delle feste: focacce di manioca, carne di scimmia ragno affumicata o di pesci arrostiti al cartoccio (fatto con foglie di varie specie), pappe di banana o di pupugna, miele d’api della foresta misto a pollini, cera e fuchi, un insieme gustoso e proteico».

È un Natale amaro, quello di quest’anno. «Finora, in Amazzonia tutti sono arrivati, hanno preso e hanno portato via. Rimangono i veleni, come quelli a base di mercurio che si usano per l’estrazione dell’oro, o come i prodotti chimici usati per sbiancare la cellulosa», confida fratel Carlo. «Non siamo nè vogliamo essere un museo. Di Amazzonia si può vivere, e anche bene, ma bisogna farlo con intelligenza. Il legname si potrebbe tagliare, ma in modo tale da non distruggere parti intere di foresta. Ci sono prodotti ricercati e remunerativi. Nella riserva del Cajari, per dire, vivono della castagna del Pará; nella foresta si possono ricavare essenze preziose per fare cosmetici».

Purtroppo tutto va nel segno opposto. «La sete di profitto a ogni costo porta a identificare i popoli indigeni, la loro cultura, le loro tradizioni come nemici da combattere. Le terre degli Yanomami sono invase da migliaia di cercatori d’oro, i garimpeiros, che si muovono in un contesto di violenza e di sopraffazione, seminando terrore, introducendo droghe, trasmettendo malattie, corrompendo minorenni. In particolare c’è un villaggio abitato da un centinaio di  indios, mai contattato da nessuno, circondato da tre gruppi di garimpeiros che hanno già sparato a uno di loro.  In ogni caso basta la trasmissione di un virus (morbillo, influenza o altro) contro cui non sono immunizzati e il rapido contagio può causare una strage ». Non che il resto del Brasile vada meglio: «Quest’anno si chiude con alle spalle 60 mila morti ammazzati e con i servizi pubblici essenziali (sanità e istruzione in primo luogo) segnati dal degrado. Anche le notizie buone in realtà alla fine non si confermano completamente tali. Un esempio? Il Brasile produce enormi quantità di cibo (granaglie, carne, caffé, frutta, vini) usando però con abbondanza agrotossici proibiti in Europa».

«Nella discarica di Boa Vista, a metà ottobre sono stati trovati oltre cento bambini che vi lavoravano, cibandosi anche di rifiuti», conclude fratel Carlo Zacquini. «Con l’afflusso di decine di migliaia di venezuelani (ne sono arrivati almeno settantamila, tra cui un buon numero di indigeni Warao) che fuggono dal conflitto, dalla repressione, dalla miseria e dalla fame vera e propria, si accentua il caos in ospedali, scuole, prigioni. Noi ci ostiniamo a coltivare la speranza fondata nel Signore. La festa dell’amore gratuito ci conferma che la storia va avanti e può, deve essere vivificata dalla Grazia. Vale per me vecchio religioso missionario. Vale per gli Yanomami, i Makuxì, i Wapixana, gli Ingaricò e le altre popolazioni indigene spesso dimenticate».

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