Non illudiamoci, l'Inghilterra ha già un piede fuori dall'Europa. Anche se rimanesse il "remain" i guai per l'Europa non mancherebbero. David Cameron ha già contrattato con Bruxelles condizioni di grande vantaggio attraverso le decisioni della Commissione e soprattutto del Consiglio europeo. Talmente di vantaggio che ci saranno quasi certamente altri a pretenderle all’interno dell’Unione, a partire dai Paesi dell'Est. Il 19 febbraio scorso Londra ha infatti ottenuto il cosiddetto “opt out” ( “rinuncia”), una sorta di statuto speciale che la rende molto indipendente rispetto agli altri Stati membri. Tanto per fare un esempio, i neo arrivati dagli altri Stati membri dovranno lavorare almeno quattro anni prima di avere accesso all'assistenza sanitaria e sociale gratuita, alla faccia del Trattato di Schengen. Non dobbiamo pensare che “leave” o “remain” producano le stesse conseguente. Per l’Europa il “remain” sarebbe il male minore. I movimenti populisti e antieuropeisti subirebbero indirettamente una sconfitta sul piano politico.
Il premier David Cameron, che si è preso sulle spalle la croce dell’impegno pro Europa nella campagna referendaria, rimarrebbe a Downing Street. Il suo rivale Boris Johnson rimarrebbe fuori dai giochi. La comunità straniera verrebbe tranquillizzata e continuerebbe a lavorare come e più di prima, con conseguenze positive sul piano dei servizi, della convivenza sociale e della produttività. Non scomparirebbero i fondi alla ricerca e allo sviluppo dell’occupazione erogati da Bruxelles. E soprattutto, l’Inghilterra si salverebbe da quella recessione che gli economisti danno quasi per certa in caso di “remain”. Anche la City ci guadagnerebbe. L'incertezza sui mercati sarebbe immediatamente rimossa dai mercati azionari di tutto il mondo. Le previsioni della speculazione internazionale si baserebbero non più sull'incertezza, ma tornerebbero sugli indicatori classici, sulle prospettive di stabilizzazione dei prezzi delle materie prime e sulla politica monetaria statunitense.