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giovedì 07 novembre 2024
 
 

Gli stranieri (mal)visti dagli afghani

07/02/2012  Una ricerca di Intersos. La maggior parte degli intervistati lamenta una sicurezza precaria e ritiene che l'intervento armato internazionale non abbia prodotto i risultati sperati.

Una conferma, nessuna sorpresa. A dieci anni e mezzo dall'inizio della guerra contro i terroristi (Talebani e affini), i militari stranieri presenti in Afghanistan non sono affatto visti bene. Anzi. Disillusione, diffidenza e sospetto: ecco i sentimenti prevalenti verso le truppe della coalizione internazionale che emergono dalla ricerca “Le truppe straniere agli occhi degli afghani: percezioni, opinioni e rumors a Herat, Farah e Badghis”, promossa dall'organizzazione non governativa Intersos e realizzata dal ricercatore e giornalista freelance Giuliano Battiston. Le interviste raccolte nell’estate 2011 con interlocutori diversi - dai religiosi ai funzionari governativi, dai commercianti agli attivisti - segnalano un forte scollamento tra le dichiarazioni delle cancellerie occidentali, le quali sostengono che le forze Isaf-Nato siano riuscite in buona parte a stabilizzare il Paese, e quelle degli afghani, che ritengono che la comunità internazionale abbia fallito nel garantire la sicurezza alla popolazione, pur manifestando apprensione sulle conseguenze del ritiro delle truppe.


Solo i militari schierati dalla missione Isaf, sotto il comando della Nato, sono 130.386 (il dato è aggiornato al gennaio 2012).  Il contingente più numeroso è quello statunitense, con 90.000 effettivi (molti altri soldati Usa sono impegnati in Enduring freedom), seguito da quelli inglese (9.500), tedesco (4.818), italiano (3.952), francese (3.916) e polacco (2.475). Ci sono Paesi che hanno inviato reparti ridotti al lumicino o solo qualche ufficiale di collegamento: i lussemburghesi sono 11, gli irlandesi sono 7, gli austriaci 3. 

Innegabilmente si combatte, si spara e si muore, in Afghnistan. Coalizione alleata contro insurgents, ovvero contro gli insorti, termine che comprende i Talebani veri e propri ma anche le bande al soldo dei narcotrafficanti, banditi senza arte né parte, milizie di questo o di quello clan contrapposto. La maggior parte degli intervistati lamenta condizioni di sicurezza precarie e ritiene che il dispiegamento delle truppe internazionali non abbia prodotto i risultati sperati. «Nel 2004», afferma tra gli altri M. Akram Azimi, docente all’Università Ghargistan, a Farah, «i Talebani erano circa 400. Nel 2009, 25.000. Oggi possono contare su 30.000 combattenti. La comunità internazionale dovrebbe cominciare a chiedersi perché i ribelli aumentano invece di diminuire». Già, perché crescono insofferenza e astio se non addirittura opposizione armata? Le cause sembrano essere soprattutto due: la pluralità di orientamenti, tattiche e obiettivi perseguiti dai singoli contingenti e lo scarso coinvolgimento delle controparti afghane nell’elaborazione della strategia di pacificazione e stabilizzazione. 


«Il fallimento della comunità internazionale dipende dal fatto che è mancata una strategia coerente tra gli attori coinvolti nel conflitto; inoltre, essa è stata elaborata altrove, da gente che non conosceva il Paese», dichiara Soraya Pekzad dell’organizzazione Voice of Women, a Herat. Viene criticato inoltre lo squilibrio eccessivo tra i fondi destinati alle operazioni militari e quelli per lo sviluppo e la ricostruzione, oltre che l’enfasi posta su una concezione della sicurezza ridotta alla sola incolumità fisica, a scapito degli aspetti sociali, economici e istituzionali di una più ampia "sicurezza umana". «Non si è prestata sufficiente attenzione allo sviluppo economico e alla ricostruzione. Oltre ad un’efficace strategia di contro-terrorismo, servono opportunità di lavoro, senza le quali i Talebani sono destinati a crescere», osserva Rahman Salahi, capo Shura dei professionisti, Herat. 

Alle forze internazionali viene poi imputata la scarsa considerazione delle conseguenze delle loro operazioni sui civili, l’uso indiscriminato dei bombardamenti aerei e dei raid notturni, la violazione degli spazi domestici. Tra le lamentele più diffuse, l’idea che agiscano al di fuori di ogni quadro giuridico certo, rispondendo soltanto ai propri codici di condotta, esenti da un esame pubblico e obiettivo, non privo, se necessario di critiche, censure o, nei casi più gravi, vere e proprie sanzioni. «In caso siano vittime di un incidente, gli afghani non hanno alcuno strumento legale per chiedere giustizia, mentre la protezione dei civili dovrebbe essere una priorità», riflette Abdul Qader Rahimi, dell'Afghanistan Independent Human Rigths Commission, di Herat. 


Il percepito deterioramento delle condizioni di sicurezza, il rafforzamento dei movimenti antigovernativi e la sensazione che i soldati stranieri siamo immuni dalla legge hanno fatto crescere la sfiducia e la diffidenza nei loro confronti, insieme all’idea che siano in Afghanistan per promuovere gli obiettivi strategici dei rispettivi Paesi piuttosto che per garantire il benessere della popolazione. «Nel 2001, in un mese le truppe straniere sono riuscite a sconfiggere l’intero movimento dei Talebani… Come mai, oggi, questi sono più forti di prima? La gente se lo chiede», incalza Abdul Ghani Saberi, vicegovernatore provincia di Badghis.


Molti intervistati sostengono che i contingenti Isaf-Nato sarebbero disposti persino a sostenere i Talebani e ad alimentare il conflitto, per evitare veri combattimenti o per continuare a motivare la propria presenza in Afghanistan. «Perché oggi i Talebani sono forti? Si dice che qualche paese straniero fornisca loro assistenza, armi, equipaggiamenti vari, aiuti militari e logistici… La ragione è che ci sono obiettivi di natura strategica e per raggiungerli occorre una presenza di lungo termine in Afghanistan», dichiara Faisal Kharimi, giornalista e docente universitario, Herat.

A dispetto delle tante obiezioni mosse all’operato degli eserciti stranieri, però, la maggior parte degli intervistati ritiene che debbano restare oltre la data annunciata del ritiro, il 2014, con una nuova e più efficace strategia. Tra le ragioni: l’instabilità del quadro politico interno, la scarsa fiducia nei confronti della leadership locale e l’idea che le truppe straniere rappresentino un deterrente all’affermazione dei Talebani più efficace dell’esercito locale, ritenuto ancora impreparato: «Gli stranieri ora sono qui e la situazione è grave. Nel caso se ne andassero, forse peggiorerebbe. Devono restare più a lungo del 2014, ma devono fare meglio e diversamente da quanto fatto finora», puntualizza M.Sardar Saraji, vice capo Shura-e-Ulema, Qala-e-now. 


I timori legati al ritiro sono principalmente due: la preoccupazione che il vuoto che ne deriverebbe sarebbe occupato dalle potenze regionali confinanti, in particolare da Iran e Pakistan, e l’idea che, una volta avvenuto il ritiro, gli attori internazionali possano rinunciare a ogni futuro impegno politico-finanziario: «La grande preoccupazione è che, con il ritiro delle truppe internazionali, l’Afghanistan venga di nuovo dimenticato. Molta gente lo pensa, ricordando la tragica situazione che si è creta negli anni Novanta … C’è il rischio che l’esercito nazionale non combatta contro i Talebani, ma si divida in fazioni, che si combattono a vicenda», afferma Abdul Khaliq Stanikzai, Sanayee Development Organization, Herat. 

Quanto al dialogo con i movimenti antigovernativi, molti degli intervistati sostengono la via della soluzione politico-diplomatica, invocando un negoziato trasparente e attento alle esigenze della popolazione. «Si deve negoziare con i Talebani: sono afghani, e vanno coinvolti nella gestione del potere, anche nel governo. Abbiamo accettato gli stranieri, perché non dovremmo accettare i nostri fratelli Talebani?», s'accalora Faruq Huseyni, capo Shura-e-Ulema, Herat. 

In relazione alle attività integrate civili-militari, uno dei dati più evidenti è la confusione sugli obiettivi dei PRT (Provincial Reconstruction Teams) e sul loro modo di operare. Molti intervistati lamentano, oltre all’opacità nella gestione dei progetti, la confusione tra gli obiettivi della sicurezza e quelli della ricostruzione e contestano il fatto che ai militari siano assegnati compiti civili: «Quando chiediamo più sicurezza, i militari ci dicono di essere qui per la ricostruzione. Quando chiediamo la ricostruzione, ci dicono di essere qui per la sicurezza. Alla fine, non garantiscono nessuna delle due…», ironizza amaro Farid Ehsas, che viene presentato come un "esponente della società civile di Farah". Oltre che controproducente, la confusione generata dai PRT è ritenuta pericolosa per la popolazione civile, soprattutto nella città di Herat, dove ha sede il PRT italiano. Dato che rappresenta un obiettivo dei Talebani, gli intervistati condannano in modo unanime la scelta di averlo stabilito in una zona residenziale, e chiedono che venga al più presto trasferito altrove. «Alla gente non piace affatto che il PRT sia lì, si sente minacciata; per questo è stato chiesto agli italiani, tramite il Governatore di Herat, di cambiare sede. Finora, nessuna risposta. É curioso: sostengono di voler promuovere la democrazia in Afghanistan e poi non prestano attenzione a una richiesta democratica della popolazione di Herat», ragiona Adela Kabiri, giornalista e docente universitaria a Herat. 


Volendo trarre una cifra interpretativa che accomuni argomenti diversi e dia ragione di tanti pareri, si può dire che dalla ricerca emerge l’esplicita richiesta che venga restituita agli afghani la sovranità su tempi e strumenti per gestire il Paese e deciderne le sorti future, insieme all’appello rivolto alla comunità internazionale di rafforzare la preparazione delle forze di sicurezza afghane e di non abdicare alle proprie responsabilità politiche e finanziarie, continuando a sostenere la ricostruzione e la cooperazione civile una volta avvenuto il ritiro dei militari.

 
 
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