«Correva come una gazzella la mia amica. Siamo riusciti a prenderla quando ormai era buio. Doveva essere “tagliata”, come tutte noi, come si fa da sempre in Nigeria. Ci sono voluti quattro uomini per tenerla ferma. Urlava e si dimenava. Poi, dopo l'intervento, non riusciva neppure ad alzarsi. Era come un animale ferito. Tratteneva l'urina perché il dolore che provava era insopportabile. Lì ho cominciato ad avere dei dubbi».
Fino ad allora Gloria, nata in Camerun, ma sempre vissuta in Nigeria, non si era mai fatta domande. Era stato per lei normale assistere la nonna, ostetrica tradizionale, per apprendere il mestiere, e poi iniziare a fare quello che faceva lei, comprese le circoncisioni. «In Africa si chiamano così, e vengono effettuate entro le due settimane dalla nascita del bambino, maschio o femmina che sia. È un momento solenne perché è lì che il neonato riceve il nome».
Per la sua amica era stato diverso. Risparmiata da piccola perché ammalata, a nove anni, in vista della pubertà, i genitori avevano deciso che non si poteva più rimandare. E lei era scappata perché aveva capito il pericolo, che Gloria, poco più grande, invece non aveva percepito. «Anzi, per me sua mamma faceva una cosa giusta e lei non aveva il diritto di rifiutarsi. Mi risultava inconcepibile il suo atteggiamento. I genitori volevano solo lavarla dalla vergogna, che altrimenti si sarebbe portata appresso tutta la vita. Era così da sempre nel nostro villaggio. Le bambine stesse, quando non erano state tagliate da neonate, lo chiedevano per sentirsi accettate dalla comunità. Ma la sofferenza di quella mia amica, il suo opporre resistenza in maniera così audace, le complicanze, mi hanno fatto riflettere».
Oggi Gloria ha quarant'anni, è in Italia da quando ne aveva 18, vive a Firenze, fa l'infermiera ed è impegnata nell'associazione Nosotras onlus, che si batte contro le mutilazioni genitali femminili. «Ho studiato e ho capito che si tratta di vere e proprie mutilazioni e che il clitoride è un organo importante. Così come ho capito che la realizzazione di una donna non può dipendere dal marito».
Gloria nel suo villaggio “tagliava”, perché così faceva sua nonna, che l'ha allevata. «Mamma e papà mi avevano abbandonato, nonna mi ha salvato la vita. Lei si manteneva con il mestiere di ostetrica tradizionale. Era rispettata da tutti perché faceva nascere i bambini. E questo nelle società africane è molto importante. Io ero affascinata da lei e dalle sue capacità curative. Perciò, sui cinque, sei anni, già mi sentivo grande, le ho chiesto di accompagnarla nella sua attività». Nonna portava con sé la nipote, ma le assegnava compiti adeguati alla sua età, come preparare l'acqua calda, non la faceva assistere a situazioni che avrebbero potuto danneggiarla. «Io facevo domande, ma in Africa i bambini non possono fare domande e, se le fanno, non ottengono mai risposte. I bambini possono solo ascoltare i racconti degli adulti e imparare».
In Nigeria, la circoncisione del maschio è solo per una questione igienica, per le femmine c'è molto altro. «Lì», spiega Gloria, «subentra la credenza che, così facendo, si evita la promiscuità femminile, e si rende la donna più bella. Io ho quarant'anni e non ho figli. Nella mentalità africana è assurdo. Per essere valorizzata in Africa, devi avere marito e figli. Devi essere perfetta, la più bella, anche perché il marito va condiviso con altre mogli. Se ti dicono che per questo devi fare la circoncisione, tu la fai. Il maschio può fare quello che gli pare, avere tutte le donne che vuole; la donna dev'essere preservata».
A 18 anni Gloria arriva in Italia per studiare; dopo le Superiori, sceglie di iscriversi a Scienze infermieristiche. «Arrivata in Italia, la circoncisione me la sono lasciata alle spalle, qui per me non esisteva. Mia nonna mi aveva detto: “Vai nel Paese dei bianchi, dove non fanno la circoncisione, e dove non ti danno un bicchiere d'acqua senza pagarlo”. Era una donna saggia e aperta di mentalità. Era stata lei a volere che partissi, mi aveva detto che ormai la sua vita era finita. Infatti, due settimane dopo che sono arrivata in Occidente, è morta. Qui ho dimenticato tutto quello che lei mi aveva insegnato, perché non mi serviva più. Però le basi le avevo, sentivo dentro di me che ero già formata per l'attività medico-sanitaria».
Improvvisamente, qualcosa la riporta indietro nel tempo. «Al terzo anno di università, dovevamo fare tirocinio nel reparto psichiatrico. Arrivo e incontro una nigeriana che gridava, delirava. Chiedo all'infermiera che cosa avesse. Mi risponde che era in crisi post partum. Ancora una volta, dico no: questa patologia è delle bianche, non delle africane. Un po' alla volta, conquisto la sua fiducia, e capisco che è terrorizzata per la figlia, perché i suoi fratelli volevano circonciderla». Il passato torna presente. Anche in Occidente si taglia. Gloria fa la sua tesi proprio su questo. Intervista tante compaesane e scopre un mondo di donne fortemente disinformate su come avvenga l'intervento, e sui rischi, ma ancorate alla tradizione. «Alla domanda: lo faresti a tua figlia? La maggioranza ha risposto sì». Perché sennò la figlia «porterà la vergogna tutta la vita, non riuscirà a sposarsi. Addirittura, una di loro era irritata perché il marito si opponeva».
Il problema, dunque, è prima di tutto culturale. Infatti anche chi è in Occidente da tempo, ha difficoltà ad abbandonare tale pratica. Pertanto, bisogna agire sia qui che nei Paesi di origine. Sono ben 28 i Paesi africani dove le mutilazioni genitali femminili vengono praticate, con tipologie diverse di intervento, più o meno invasive. «Oggi anche in Nigeria esiste una legge contro le mutilazioni genitali, ma la legge morale continua a prevalere. Minacce di arresto o di emarginazione non servono. Bisogna spiegare, bisogna innalzare il livello culturale. Io stessa ho contribuito alla diffusione di questa pratica. Mi sentivo importante nel mio lavoro. Non ho rimpianti, nel mio mondo quella era la normalità. Ora che sono qui, ho capito che è sbagliato. Se fossi rimasta in Africa, probabilmente avrei continuato, perché non avevo altre risorse».
Ancora una volta, quindi, dobbiamo fare i conti con il nostro sistema di giudizio a senso unico. «Rinnegare il “taglio”, non aiuta a sradicarlo. La gente pagava mia nonna per il suo operato e questo ci ha permesso di vivere. Molte donne che lavorano come tagliatrici sono vedove che non avrebbero altro mezzo di sostentamento. Bisogna offrire loro un'alternativa».
«Per questo», spiega Elena Baragli, vicepresidente di Nosotras, con sede a Firenze e che rappresenta l'ufficio italiano di Inter Africa Committee, network di organizzazioni che combattono per l'affermazione dei diritti delle donne in Africa, «curiamo molti progetti di microcredito rivolti alle donne, e operiamo anche per formare una nuova cultura. Nei Paesi africani dove operiamo si svolge la cerimonia dell'abbandono dei coltelli. E abbiamo lanciato la campagna “Ex ex - adotta una ex mutilatrice”. Il sostentamento economico permette alla “tagliatrice" di abbandonare il coltello».
In Italia la legge 2006 ‒ “Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile” ‒ punisce anche se la mutilazione è avvenuta in un Paese altro. Perché sono numerose le famiglie che durante l'estate mandano le figlie a casa per farle tagliare. «La difficoltà maggiore», continua Baragli, «è che non ci sono stime certe sul target delle bambine a rischio. Bisogna tenere monitorati ospedali e scuole, soprattutto, e bisogna imparare a riconoscere i fattori di rischio».
Gloria, oggi che cosa diresti a tua nonna? «Non la giudicherei come non giudico me stessa. Però le spiegherei che è sbagliato, che non si deve più fare. Perché tutte quelle dicerie sulla donna da preservare sono solo retaggi culturali maschilisti. Era intelligente mia nonna, sicuramente avrebbe capito».