Se sarà il “governo del cambiamento” vedremo. Per ora meglio stare ai fatti. La squadra varata dal premier Giuseppe Conte e dai due vice premier, ministri di peso e azionisti di riferimento, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, è un esecutivo politico affidato alla regia di un tecnico. O, per dirla con un’espressione molto di moda ma impropria, “non eletto dal popolo”. È un governo basato su un contratto notarile sottoscritto tra due forze politiche che in campagna elettorale sono state avversarie e che oggi si guardano con sospetto.
Non c’erano alternative, però. La politica è anzitutto realismo. Se fosse nato il governo “di servizio” che il presidente Mattarella aveva messo in campo come extrema ratio affidandolo a Carlo Cottarelli sarebbe nato da un fallimento della politica. Una politica che per calcolo elettoralistico e miopia avrebbe trascinato il Paese a elezioni balneari e per di più con l’attuale legge elettorale che non consente di sperare in un quadro politico più chiaro.
Molto si è detto e scritto dei nomi dei ministri. E giustamente. Il nodo del professore Paolo Savona, domenica scorsa, aveva fatto saltare il varo dell’esecutivo giallo-verde con Conte costretto a rimettere l’incarico nelle mani del Capo dello Stato. Ma, al di là di quel che è stato, ora il compito più delicato e complesso è proprio quello del presidente del Consiglio. Deve fare sintesi tra forze politiche che su molti temi hanno idee diverse, se non opposte. Deve coordinare una squadra che è composta da ministri tecnici (in caselle di peso, peraltro, come Economia, Esteri e Politiche comunitarie) e ministri politici, espressione di due partiti che non si sono presentati insieme alle elezioni.
È un governo che segna comunque un passaggio storico perché a Palazzo Chigi arrivano due forze anti sistema, che dopo la lunga stagione dell’opposizione dovranno confrontarsi con la complessità dei problemi reali del Paese: il lavoro che non c’è, il fenomeno imponente dell’immigrazione,le povertà diffuse e nascoste.