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martedì 25 marzo 2025
 
Letteratura
 

Graham Greene, scrittore inquieto del cristianesimo

29/11/2023  Una biografia di Fulvio Fulvi analizza il tormentato rapporto di uno dei maggiori scrittori del Novecento con la fede cattolica. I suoi romanzi erano come dei film, dinamici e ricchi di colpi di scena. Dietro la sua conversione la figura della donna che amava

Fulvio Fulvi.
Fulvio Fulvi.

Per gentile concessione dell'editore Ares, pubblichiamo l'introduzione alla biografia di Fulvio Fulvi, giornalista e scrittore, dedicata allo scrittore britannico Graham Greene, uno dei maggiori romanziari del Novecento, dal titolo "Graham Greene, il tormento e la fede".

 

Già negli anni del liceo, quando mi tuffai per la prima volta nelle pagine del romanzo Il potere e la gloria e del racconto L’ultima parola, rimasi affascinato dai temi, dalla scrittura, dallo spessore psicologico dei personaggi che muovevano le due storie e dallo stile asciutto, essenziale, “cinematografico” di Graham Greene.

Fu un’emozione. Quasi tutte le opere dello scrittore britannico, come scoprii più tardi, hanno una struttura narrativa analoga a quella delle sceneggiature o dei soggetti per il cinema (soprattutto i reportage dei viaggi), con dialoghi diretti e descrizioni dettagliate di ambienti e paesaggi, e si prestano quindi più facilmente a diventare un film. E quando, da giornalista cultore di storia della Settima Arte, ho avuto il piacere di vedere e rivedere con occhio critico pellicole tratte dai suoi romanzi, a partire dai classici L’idolo infranto, Il fuorilegge e Prigioniero del terrore, è come se una scintilla avesse all’improvviso riacceso il mio primo, acerbo, amore letterario per anni colpevolmente sopito.

Greene, però, è uno dei grandi romanzieri del Novecento quasi sempre “tradito” dal cinema, che pure ne ha saccheggiato l’opera, come è successo a Georges Simenon e Giovannino Guareschi, per rimanere ad altri prolifici narratori i quali avevano come lui una capacità di scrivere in modo fluido, lieve e penetrante: autori popolari ma privi di slanci retorici, non inclini ai luoghi comuni. A differenza degli altri due, però, per il grande romanziere inglese, che ha avuto anche rigorose esperienze di sceneggiatore e critico, il rapporto con il cinema è stato senz’altro più decisivo rispetto al suo lavoro di scrittore: è come se a collegare i due ambiti ci fosse un doppio filo. «Quando racconto una scena, un ambiente», spiegava, «li capto con l’occhio mobile della cinepresa, non con quello fisso della macchina fotografica, seguo i personaggi e i loro movimenti, quindi quando volto la testa si anima l’intero paesaggio». La sua era una scrittura capace di cogliere anche le sfumature attraverso descrizioni che, nell’immaginazione del lettore, hanno gli stessi effetti di “carrellate”, “primi piani”, “panoramiche”.

E così, leggendo La roccia di Brighton, Quinta colonna, Il console onorario o Un americano tranquillo, ma anche l’esilarante In viaggio con la zia, “vediamo”, come se una pellicola scorresse nella nostra mente, gli scenari, le atmosfere, le stesse fisionomie dei protagonisti. Greene riconosce di essere stato influenzato, nello scrivere, dalle centinaia di film di ogni genere visti quando faceva il critico cinematografico per le riviste The Spectator, tra il 1935 e il 1940, e più tardi Night and Day, oltre che per l’Oxford Outlook, dove “si fece le ossa” ai tempi dell’università, quando c’era ancora il cinema muto. Firmò, in tutta la carriera, più di cinquecento recensioni. Un ricco carnet dove pescare idee, personaggi e storie da reinventare (...).

Il pensiero dello scrittore sul rapporto tra il cinema e la letteratura lo possiamo riassumere anche da una frase che lui fa dire a Henry Miles, protagonista del romanzo Fine di una storia: «Il film non era un buon film e a momenti era addirittura penoso vedere certe situazioni che per me erano così vere, storpiate dai cliché standardizzati dallo schermo». E poi, quel mondo patinato di divi e scandali artefatti, allo scrittore non piaceva, come dimostra il “caso Shirley Temple”, con quel duro attacco alla “dubbia civetteria” dell’attrice bambina che veniva sfruttata dai produttori per via «di quel suo corpicino ben fatto e desiderabile» allo scopo di far reagire gli spettatori, «uomini di mezza età ed ecclesiastici». Lo scrisse in una recensione che gli costò una cocente denuncia per diffamazione e un risarcimento in denaro di 3.500 sterline che fece chiudere per fallimento il Night and Day e pesò per anni sulle sue tasche. Amava il cinema per il quale fu anche sceneggiatore, coproduttore con Mario Soldati (suo caro amico) e persino attore, per una sola volta e non accreditato, interpretando una particina in Effetto notte di François Truffaut.

Inglese convertito al cattolicesimo, Greene, nei 54 libri pubblicati tra il 1929 e il 1991 ha raccontato storie di uomini in fuga, quasi sempre tormentati da una “colpa” e attratti da un destino ineffabile che li avvolge come in un turbine e che si svela nel loro quotidiano facendo incrociare, e qualche volta scontrare, Bene e Male, grazia e peccato, colpa e perdono, in storie dove, nella maggior parte dei casi, nulla è come sembra. Spiazzando il lettore gli insinua dei dubbi, lo fa pensare oltre le pagine, lo riconduce a sé stesso. Nei suoi romanzi la vita immobile e scialba dei protagonisti («gente comune, quasi sciocca», osservò) quando viene illuminata da un fattore inquietante – come la morte, per esempio – tocca vette di eroismo e corruzione morale che trovano solo nella pietà umana, nell’affidarsi a Dio e nella «sconcertante stranezza della Sua misericordia», una plausibile risposta. Ecco il... nocciolo della questione. Tant’è che, per converso, anche personaggi dal comportamento esecrabile, come il Raven di Una pistola in vendita, spietato killer dal labbro leporino, possono offrire al lettore uno spiraglio dal quale poter insinuare un sentimento di simpateticità quando, per esempio, gli fa dire: «In ognuno di noi cattivi si accende, prima o poi, una scintilla di bene».

Secondo Charles Moeller, autore di Letteratura moderna e cristianesimo, «l’opera di Greene altro non è che un commento alla parola divina: non giudicate. Non giudicate il mondo che vi sembra abbandonato da Dio, perché esso è abitato da Dio. Non giudicate la sconfitta di Dio, calpestato nelle sue istituzioni che vengono abbandonate al demonio, deriso nella debolezza dei sacramenti: la potenza e la gloria di Dio vi sono presenti».

Che cosa ha fatto scaturire questa visione del mondo e della Chiesa a cui il nostro autore è stato sempre fedele, pur nelle contraddizioni e nei turbamenti che hanno accompagnato la sua intensissima e movimentata esistenza? Quali sono stati gli incontri decisivi della sua vita? E quale rapporto aveva con il Mistero dal quale, per sua stessa ammissione, è stato sempre scosso, provocato, avvolto e affascinato? (...)

Greene ha svolto un compito consapevolmente coerente, dalla prima all’ultima pagina della sua vasta opera letteraria: seguire la verità, stare dalla parte delle vittime di soprusi e ingiustizie, degli sconfitti e degli “ultimi”, dei dissidenti, a fianco di chi, tra gli anni Trenta e Ottanta del Novecento, ha combattuto per il riscatto sociale, contro il malaffare dei politici e contro le varie forme di colonialismo che si andavano affermando. Stare dentro il «lato oscuro e vertiginoso delle cose» è stato per lui un modo di amare l’umanità con la stessa prospettiva di Dio. Ed è così che in Greene la vita diventa letteratura, si trasforma in un unico grande romanzo, è il frutto di un’esperienza umana “totale” e senza censure che ha racchiuso, come la cornice di un quadro, i momenti salienti di un intero secolo. E la sua penna, come un pennello, ci ha scritto dentro delle storie dalle tinte forti, più spesso ombrose e scure, ma anche brillanti, giocose, ironiche e persino tragicomiche. Non va dimenticato inoltre che egli fu anche poeta, saggista e drammaturgo. «Scrivo perché vivo», diceva. Era incollato al suo tempo e sapeva raccontare le vicende storiche che l’avevano personalmente segnato con occhi diversi da altri scrittori della sua epoca. Ma il risultato non sarebbe stato lo stesso, crediamo, se non si fosse imbattuto nel cattolicesimo come fatto personale e sacramentale. Una conoscenza voluta con spasmodica volontà nel tentativo di scoprire sé stesso attraverso il rapporto con una ragazza di cui si era innamorato.

Scrittore cattolico. Definizione troppo stretta per un “anarchico” come lui. «Non credo di esserlo, i miei libri riflettono la fede o la mancanza di fede», obiettava, «con molte sfumature tra i due estremi. Non vedo perché dovete assolutamente infliggermi questa etichetta, sono semplicemente un cattolico che si trova a essere anche scrittore».

Ma è proprio questo ribaltamento della prospettiva che fa la differenza. Non è determinato da un’ideologia ma dall’esperienza di vita. Anche se qualcuno tra i critici più severi sosteneva che il suo essere cattolico fosse soltanto una “trovata pubblicitaria”.

Nel cammino di conversione, però, Greene è stato confortato da solide letture e soprattutto dagli scritti del cardinale e teologo inglese John Henry Newman (1801-1890), “il gigante di Oxford”, già presbitero anglicano, divenuto poi cardinale e oggi venerato come santo. Di Newman assimilò, soprattutto, L’idea di università (1852), citandone spesso dei brani durante conferenze o presentazioni di libri. Greene fu colpito, in particolare, da una frase del cardinale: «ciò che percuote il cuore non è mai un discorso o un’immagine ma un incontro». E si commosse, ormai anziano, nel periodo in cui visse ad Antibes, leggendo le lettere che Newman aveva scritto poco dopo la sua conversione. Ma studiò anche le opere filomoderniste del pensatore austriaco Friedrick von Hügel, fu affascinato dal poeta e filosofo spagnolo Miguel de Unamuno e folgorato dal libro di Frank Morrison Chi ha rimosso la pietra? (1930), un’indagine sugli ultimi giorni di Gesù e sul mistero della Resurrezione. «Mi piaceva la spiritualità di Unamuno, soprattutto il suo volume su Cervantes, me lo godetti più del Chisciotte. E poi di lui amo Il senso tragico della vita», ricordò a John Cornwell in un’intervista del 23 settembre 1989 per il The Observer Magazine. (...)

La religione per Graham Greene resterà comunque un mistero indistruttibile «che neanche la Chiesa con i suoi errori potrà cancellare». Ma l’evento decisivo per la sua conversione al cattolicesimo fu l’amore per una ragazza, colei che dopo un asfissiante corteggiamento divenne sua moglie e che gli diede due figli, la donna che Greene tradì per tutta la vita con decine di amanti, stabili e occasionali, ma dalla quale non divorziò mai, forse perché lei non voleva o forse perché, in tutte le cose, “non è mai più come la prima volta”. E da quell’incontro cruciale con Vivienne vogliamo partire per conoscere meglio la complessa figura e la vita traboccante e contraddittoria di Graham Greene, come se fosse il bandolo di un’intricata matassa da dipanare in un racconto biografico che si sviluppa attraverso dieci capitoli. E, al tempo stesso, rappresenti una chiave per scoprire il significato ultimo della sua opera.

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