Che bello vedere un pianista, molto al di là con gli anni, pestare il pianoforte a ritmo di swing con l’energia di un ventenne. Oppure il suo coetaneo trombettista che dopo aver tenuto per lunghissimi secondi una nota altissima, tutto rosso in viso, si stacca dal suo strumento e tira un sospirone di sollievo. E che dire del sassofonista che, quando suonano gli altri, si abbandona volentieri a sbadigli tanto che sembra debba addormentarsi di lì a poco, ma che invece, non appena arriva il suo momento, si rianima improvvisamente, si alza in piedi e tira fuori non si sa da dove un assolo strepitoso? Sono solo alcune istantanee dal concerto del 26 gennaio della Duke Elllington Orchestra al Teatro Lirico Giorgio Gaber di Milano, ultima tappa del tour italiano di questo formidabile ensemble che da 100 anni porta in giro per il mondo le oltre 2000 composizioni di uno dei più grandi geni musicali del XX secolo.
Cento anni fa infatti, al Cotton Club, lo storico locale di Harlem, Duke Ellington fondò la sua orchestra. Da allora il musicista chiamato il “Duca” per la sua nobiltà d’animo ed eleganza nei modi ha portato ovunque i suoi classici immortali tra cui It Don’t Mean a Thing if it Ain’t Got That Swing, Take the A train, Mood Indigo, Satin Doll, Caravan, In A Sentimental Mood: una musica che supera i confini del jazz, suonata da musicisti bianchi e neri e che contiene sempre, in modo più o meno esplicito, un messaggio di fratellanza e di pace. Come nella suite scritta nel 1943 e intitolata Black, brown and beige, che scrisse ispirandosi al cammino di emancipazione del popolo afroamericano negli Stati Uniti.
Dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 1974, l’orchesta ha proseguito la sua attività grazie ai familiari del Duca. Anche a Milano, alla fine del concerto è salito sul palco l’attuale bandleader, il nipote Paul Mercer Ellington che, emozionatissimo, con il pubblico tutto in piedi nel teatro pieno, ha promesso che lui e i suoi fantastici musicisti torneranno presto in Italia. Finale con il bis di Satin Doll e i musicisti stremati ma felici.
Foto di Marcello Orselli