«Vai avanti ragazzo, vai avanti a testa alta e ascolta sempre la tua coscienza». Il ragazzo ha poco meno di settant’anni adesso e ha fatto abbastanza strada da diventare la seconda carica dello Stato, presidente del Senato. Ma nel buio del teatro del Collegio San Carlo di Milano, ovattato dal silenzio di tanti ragazzi che ascoltano, le polemiche sulla riforma del Senato non entrano, le insegne quasi spariscono. I titoli anche: il tempo riavvolge il nastro. «Ci ho messo settant’anni per diventare Piero Grasso, quasi cinquanta per completare il mio percorso in magistratura, meno di due per diventare Presidente del Senato. Qui vorrei essere Piero Grasso e basta, per favore». Quella che sulla carta era una visita istituzionale si trasforma in un viaggio nella memoria, quella di Grasso, Pietro per lo Stato Piero per gli amici, ma anche quella di Alessandro D’Avenia, scrittore, insegnante di lettere al San Carlo che ha fatto da tramite, perché nella vita pesano le coincidenze e i luoghi in cui accadono.
Hanno oltre trent’anni di differenza Piero Grasso e D’Avenia, ma un castello di luci e di ombre ha incrociato il loro destino tanti anni fa in un porto di mare, sole, dolore e coraggio chiamato Palermo. La Palermo della guerra di mafia, per Grasso, la Palermo di don Puglisi per D’Avenia che ha avuto il prete martire come prof di religione al liceo e che a settembre del 1993 non l’ha visto tornare in classe. «Se un professore di lettere mi ha innescato la passione per la letteratura», racconta D’Avenia, «l’incontro con padre Pino Puglisi ha determinato l’insegnante che sarei voluto diventare, forse non sono all’altezza ma ci provo». Piero Grasso gli fa eco: «Sono diventato magistrato per la stessa ragione, per i morti per strada».
Erano solo l’inizio quei morti senza nome. Nelle parole di questa sala buia, - in cui in occasione dell’uscita dell’omonimo libro di Sperling&Kupfer si tiene una delle Lezioni di mafia - altri con un volto, che per i ragazzi sono solo una foto, riprendono vita nelle parole. Quando Antonino Caponnetto, capo dell’uffcio istruzione, pronunciò accompagnandola con un buffetto la frase tra virgolette che inizia questo racconto c’era una lunga storia tutta da scrivere. A cominciare dalla sentenza del cosiddetto maxiprocesso di Palermo, istruito da Falcone e Borsellino e della cui sentenza Piero Grasso – il ragazzo – fu giudice estensore.
Uno degli studenti in sala chiede un ricordo personale di Falcone e Borsellino: «Falcone sembrava burbero sul lavoro, era il suo modo di tenere le distanze, nella vita era un burlone. Come tutti i siciliani, consapevoli del rischio, Giovanni e Paolo scherzavano spesso, tra loro, con la morte. Ricordo un mattino un camioncino dell’Avis davanti al Tribunale, eravamo tutti e tre, Falcone guardò il cartello: “Donate il vostro sangue” e commentò: “E questi chi ce li manda, cosa nostra?”. Un’altra volta pranzavamo insieme su una barca ristorante sul mare. Vedemmo una barca che puntava su di noi, so dalle facce che abbiamo pensato tutti la stessa cosa – un attacco dal mare – ci siamo guardati come dire: “E’ la volta buona”. Tirammo un sospiro quando la vedemmo deviare all’improvviso. Un attimo dopo arrivò un cameriere: “La bistecca al sangue, vero dottore?” Credo che non abbia mai capito il senso della risata liberatoria con cui gli rispondemmo».
Perché sì, Grasso lo ammette, la paura esiste e anche la domanda, che ti torna quando altri distruggono il lavoro che hai fatto come la tela di Penelope, chi te lo fa fare? «Te lo chiedi, quando ti minacciano, quando un figlio adolescente ti contesta perché non accetta la tua scorta, quando ti sembra di aver perso la vita quotidiana, la vita è anche momenti di sconforto, ma andare avanti tenendo di vista gli obiettivi e il proprio dovere si può, si deve. Vi voglio dire di non arrendervi, vi ripeto quella frase che mi disse Caponnetto: “Andate avanti ragazzi…”, perché quando io non sarò più testimone di questi incontri, altri continueranno a portare avanti la memoria. Serve a non dimenticare quelli che non ci sono più, ma anche a ricordare che la mafia vive – anche a Milano - di consenso e tocca a ciascuno di noi scegliere nel nostro piccolo da che parte vogliamo stare. La mafia promette i soldi facili, ma la verità che non dice è un'altra: chi la sceglie trova carcere, schiavitù e morte».