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Che Gabriel Batistuta, il campione argentino che ha lasciato un segno viola a Firenze con il soprannome di Batigol, il Re Leone con gli occhi azzurri e la criniera bionda che festeggiava ogni rete con un bacio alla telecamera e una dichiarazione d’amore alla moglie: «Irina, te amo», non fosse uno come gli altri si sapeva.
Lo si sapeva da quando era piccolo e pativa il bullismo dei compagni del quartiere, il soprannome “el gordo”, il grasso, affibbiato perché era cicciottello e gli tirava la maglietta. Invece di scappare dal campo, di arrendersi al fisico non proprio atletico e al talento strabico, un piede destro baciato dalla grazia e un sinistro non all’altezza, si mise a giocare al muro, ogni ora libera dal resto con la palla, tac- sinistro-tac-sinistro-tac-sinistro- tac-sinistro.
L’età e l’allenamento hanno scolpito il fisico, il lavoro ha costruito la padronanza del piede sinistro: il Batigol che abbiamo conosciuto segnava con tutti e due i piedi, ma si sapeva che calcisticamente non era nato con tutti e due. Il tutto ha avuto un prezzo: dopo l’Italia a Firenze, Roma e Inter, è stato tre stragioni all’Al Arabi, e al momento del ritiro nel 2006 sono arrivati gli anni difficili. Perché lo sport d’alto livello può rendere moltissimo, ma logora il corpo e le caviglie senza più cartilagini e con i tendini consunti hanno chiesto il conto fino a rendergli difficile camminare. Oggi a 50 anni compiuti da poco, dopo l’ennesimo intervento, le cose sono migliorate: si concede qualche partitella muovendosi poco poco, aspettando la palla sui piedi, e ha preso il patentino per allenare. Ha accettato l’idea di un documentario sulla sua vita, purché non si raccontassero solo i successi ma anche la determinazione del bambino della periferia di Avellaneda, per dare un messaggio a chi come lui nasce in un contesto svantaggiato.
Del lavoro conserva un concetto che ha stupito e che sta facendo notizia dopo un’intervista concessa nei giorni scorsi a Espn radio Argentina, in cui gli chiedono conto di suo figlio che lavora in una copisteria. La risposta è di quelle che non si sentono spesso attorno ai campi di calcio dove cantano altre sirene: «Sì, è vero lavora in una copisteria. Per me il fatto che i miei due figli lavorino significa regalare loro la dignità, soprattutto per loro. Potrei regalare loro macchine, ma non li renderebbero felici. Quanto potrebbe durare una felicità così? Il tempo di salire in auto, passare per il centro, farsi guardare dalle ragazze, con la gente che dice: “Guarda che macchina ha quello”, ma loro dentro lo sanno di essere ammirati per una cosa che arriva dal padre. Io credo che abbia tutto un altro sapore quando sali sulla tua auto, anche meno bella, con la soddisfazione di essertela guadagnata».





