L'intervento militare internazionale nel Mali e le sue ricadute, come la presa di ostaggi in Algeria, provocano in tutto il mondo le stesse domande che hanno segnato la politica degli ultimi decenni. Fino a che punto è lecita questa guerra? Le truppe straniere, prime fra tutte quelle francesi, sono lì per combattere il terrorismo o per servire gli interessi economici delle potenze? E' un intervento liberatorio o un atto di neo-colonialismo?
In questi interrogativi risuona l'eco delle campagne in Iraq, in Afghanistan, in Libia, e non solo di quelle. E la risposta dipende dall'orientamento ideale di ognuno, perché tutti questi temi provocano risposte complesse e piene di sfumature. Proviamo a vederle in modo schematico.
1. Una guerra lecita? Il pacifista risponderà no, perché nessuna guerra è lecita. Chi invece riconosce i principi degli accordi tra Stati, accetterà anche la Risoluzione 2071 del Consiglio di Sicurezza dell'Onu che il 12 ottobre ha approvato un intervento militare delle organizzazioni sovranazionali africane in Mali, in particolare l’Unione Africana e la Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas). La risoluzione dava alle due organizzazioni 45 giorni di tempo per presentare un piano di intervento. Prima che il piano fosse pronto, la situazione nel Mali è precipitata. La Francia è intervenuta con le proprie truppe, visto che i peace keeper africani non si muovevano, e i leader dei Paesi del G8 hanno non solo approvato ma applaudito, chiedendo intanto ai Paesi dell'Africa di fare il proprio "dovere".
2. Paura dei terroristi? La minaccia islamista dei gruppi armati che s'ispirano ad Al Qaeda è in effetti più che forte. Respinti dall'Algeria, dove sono stati molto attivi dal 1995 al 2005, questi gruppi sono pian piano scivolati verso Sud per agganciarsi alle battaglie locali in corso. In Nigeria si sono alleati alla setta islamista Boko Haram, nel Mali hanno infiltrato, fino a controllarla, la lotta dei tuareg per l'indipendenza dal Governo centrale, a sua volta indebolito da un colpo di Stato militare secondo molti ispirato da Nicolas Sarkozy ma realizzato da un ufficiale, il capitanoAmadou Aya Sanogo, che tra il 1989 e il 2000 ha seguito sei corsi di addestramento negli Usa. Gli stessi Usa che negli ultimi dieci anni hanno riversato sull'esercito del Mali un miliardo di dollari in "aiuti". Comunque sia, le milizie tuareg-islamiste erano ormai sul punto di impadronirsi dell'intero Paese, destabilizzando tutta la regione. Con la Somalia in mano agli shaabab, la Nigeria sconvolta dalle stragi degli islamisti di Boko Haram, il Kenya minacciato e gran parte del deserto tra Mauritania, Algeria, Mali, Niger e Chad in balia dei predoni, un eventuale tracollo del Mali rischiava di "somalizzare" l'intera fascia del Sahel. Nessuno voleva o poteva permetterselo. A quanto pare nemmeno, gli Usa che infatti hanno espresso pieno appoggio all'intervento francese.
3. Gli interessi economici. Sono molti, e forti. Certamente la Francia è in prima fila, perché i Paesi della regione sono quelli che più a lungo sono stati colonizzati dai francesi e anche quelli con cui Parigi ha mantenuto i legami più solidi. Uno dei primi viaggi all'estero del presidente socialista Hollande, non a caso, è stato in Algeria. Ma anche quando si parla di denaro, le cose sono più complesse degli slogan. Nel 2004, in Mali fu creata l'Autorità per le ricerche petrolifere, che si affrettò ad assegnare 29 concessioni relative a 5 bacini di esplorazione: 9 riservate al Governo del Mali, le altre 20 divise tra Total/Elf (Francia), Baraka (Australia), Sipex (Algeria), PetroPlus (Angola) ed Eni (Italia). Non solo: il bacino Taoudeni, su cui si appuntano le migliori speranze petroliferi del Mali, si estende anche in Niger, Mauritania, Burkina Faso e Algeria. Buttatela in politica o in economia, ecco rappresentato un ampio spettro di interessi e concorrenti diversi. Per la cronaca, proprio in questi giorni l'Eni ha deciso di restituire le licenze a causa del basso potenziale riscontrato nei bacini petroliferi finora esplorati.
4. E l'oro, e l'uranio... Naturalmente non c'è solo il petrolio. Il Mali, per esempio, è il terzo estrattore africano di oro, dopo il Sudafrica e il Ghana, e tra il 2001 e il 2008 ha concesso almeno 60 licenze di esplorazione mineraria ad aziende straniere. E poi ci sono le risorse non ancora sfruttate ma già scoperte. Altro esempio: i giganteschi giacimenti di bauxite (oltre 400 milioni di tonnellate), minerale da cui si ricava l'alluminio, che nei prossimi anni dovrebbero fare del Mali il primo esportatore africano, a spese della Guinea Conakry. E poi il gas naturale,rinvenuto a poche decine di chilometri dalla capitale Bamako, in un giacimento già affidato alle cure della Total. E l'uranio, presente in ottime quantità proprio nel Nord ora dominato dalle milizie tuareg-islamiste, e prima della loro avanzata coccolato da compagnie canadesi e australiane. Il tema dell'uranio rimanda poi al confinante Niger, che ne abbonda, e dove l'azienda di Stato francese Areva domina l'estrazione.
Difficile dunque stabilire se Francia, Usa e altri Paesi si muovano per stroncare la minaccia dell'estremismo islamico o se siano in realtà interessati alle ricchezze del sottosuolo. A ben vedere, comunque, c'è poca differenza. Perché il "rischio islamismo" in quella parte dell'Africa è reale. Ma è reale anche il desiderio/bisogno dei nostri Paesi e dei nostri sistemi di usare il petrolio, l'uranio, l'alluminio, e il silente mandato che i nostri popoli danno ai politici: quello di procurarseli. Prima di cambiare politica, dovremmo forse cambiare abitudini.
Fulvio Scaglione
«Si sapeva che i ribelli dell’estremismo islamico erano bene armati, ma non si pensava fino a questo punto. L’attacco sferrato nei giorni scorsi stava portando al loro dilagare verso la capitale. Ero in Mali, a Bamako, quand’è iniziata l’offensiva. Nessuno se l’aspettava. L’esercito maliano non sarebbe stato in grado di fermarla. L’Intervento francese ha evitato una pericolosa avanzata dei guerriglieri». A parlare è Romano Prodi, inviato speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, per il Sahel.
Il Presidente Prodi risponde alle nostre domande mentre sta operando una serie di rapide visite in Europa, Cina, Russia e Canada, proprio per trovare soluzioni tempestive alla crisi bellica e umanitaria che ha investito il Paese africano.
Da mesi la guerriglia filo Al Qaeda aveva occupato la terra dei tuareg e oltre, tutto il Nord del Mali. Ma l’ultima offensiva mirava alla conquista dell’intero Paese. Perciò la reazione della Francia, messa in atto con una serie di raid aerei e con il dispiegamento – tutt’ora in corso – di circa 1.500 militari, a sostegno delle forze armate maliane. La controffensiva francese sta via via liberando dalla presenza degli estremisti islamici le principali città del Nord: Mopti, Konna, Diabali, Gao, Timbuctù.
– Presidente Prodi, la Francia ha forzato la mano?
«C’era già l’accordo generale del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, votato il 20 dicembre scorso, che prevedeva l’invio di 3.300 caschi blu africani. Direi che, a differenza di altri conflitti, la comunità internazionale non aveva dubbi sulla necessità di una missione militare. Il precipitare degli eventi aveva reso rischioso attendere ancora. C’era il fondato timore che l’intero Paese finisse in mano ai terroristi».
– Qual è ora il suo obiettivo principale?
«Il mio mandato ha quattro punti principali. Primo, aiutare il Segretario generale delle Nazioni Unite a favorire il dialogo e il coordinamento fra le diverse strutture internazionali operanti nel Sahel. Secondo, preparare il terreno per le riforme da fare in Mali, dove la tensione fra Nord e Sud durava da decenni: le regioni settentrionali rivendicavano autonomia, considerandosi marginalizzate dal governo di Bamako. Un terzo obiettivo è reperire risorse per intervenire efficacemente sull’emergenza umanitaria in atto. Infine, più nel lungo periodo, occorre avviare un’azione internazionale di sviluppo per il Sahel, che è una delle zone più povere dell’Africa. È necessario costruire un fondo globale d’intervento per le infrastrutture, per realizzare sviluppo. È un lavoro a lungo termine, che durerà anni, mi hanno chiesto di incominciarlo, lo sto facendo».
– La controffensiva francese era inevitabile?
«Per chi era quel giorno a Bamako risultava inevitabile. Dato il precipitare degli eventi, una risposta tardiva sarebbe stata rischiosa. Quando la controffensiva francese è stata annunciata, mi trovavo in un incontro con i giornalisti locali che mi stavano proprio accusando di eccessivo pacifismo. L'attacco al Nord rendeva impossibile qualsiasi prolungamento del dialogo».
– Qual è la radice della crisi?
«Le radici della crisi sono lontane, perché le divisioni fra Nord e Sud risalgono indietro nei decenni. Tutto però è precipitato con la guerra di Libia. I tuareg costituivano la forza dell'esercito di Gheddafi, che inoltre inviava copiosi aiuti finanziari agli abitanti delle loro zone d'origine. Con la guerra in Libia, i militari di origine maliana dell’esercito sconfitto sono tornati nelle loro terre d’origine, senza risorse e con le armi moderne di cui l’esercito di Gheddafi era dotato. Il risultato è stato da un lato l'arrivo di un grande numero di uomini armati nella regione dell'Azawad, nel Nord del Mali, dall'altro l'improvvisa mancanza di risorse ha provocato un vertiginoso aumento della già fiorente economia illegale: traffico di droga, sequestri di persona, contrabbando. Una situazione che continuava a degenerare. Ora si tratta di creare le condizioni per andare a sostituire un’economia legale, di cui c’è estremo bisogno, al posto di quella illegale. Un processo lungo e complesso. Per ora, il mio compito è quello di far dialogare tutte le parti per trovare soluzioni concertate alla crisi e spingere i grandi Paesi e le grandi istituzioni internazionali a preparare risorse per lo sviluppo economico del Sahel. Un compito lunghissimo e difficile».
Luciano Scalettari
«Si apre un nuovo periodo di sofferenza per il popolo maliano, già messo a dura prova. Dalle organizzazioni caritatevoli internazionali, a cominciare da Caritas, ci auguriamo un sostegno generoso per aiutarci a dare assistenza al numero crescente di sfollati e rifugiati, curare i feriti e chi combatte al fronte». Le parole sono dell’arcivescovo di Bamako, monsignor Jean Zerbo.
Il presule riferisce di una grave emergenza umanitaria, per cui «c’è bisogno di cibo, acqua potabile, kit igienici, medicinali anti-malarici e beni di prima necessità». Una crisi che andrà crescendo nelle prossime settimane, «anche perché», aggiunge l’arcivescovo di Bamako, «siamo nella stagione fredda e umida, il che complica non poco l’intervento umanitario.
Mons. Zerbo ricorda tuttavia che l’emergenza non riguarda solo i beni di prima necessità: «Speriamo in un esito felice che porti al respingimento fuori dal territorio maliano di forze islamiche che da un anno a questa parte hanno purtroppo alterato profondamente l’umanesimo africano e la cultura dei maliani fatta di tolleranza, dialogo e serena convivenza interreligiosa».
Nell’immediato, è urgente l’apertura di corridoi umanitari. Al momento, con gli intensi combattimenti in corso, in vaste zone gli operatori delle agenzie e delle Ong non riescono ad accedere. Migliaia di civili sono in fuga dalle zone più colpite dagli scontri armati.
Dall’inizio del 2012, quando il Paese è precipitato nella crisi, il Pam (Programma alimentare mondiale dell’Onu) distribuisce cibo ai rifugiati che sono affluiti nei Paesi confinanti. Le ultima cifre danno una presenza di 60 mila maliani in Niger, 54 mila in Mauritania, oltre 38 mila in Burkina Faso, 1.500 in Algeria. Quindi, oltre 150 mila persone, in totale, a cui vanno ad aggiungersi – come sottolinea Caritas Italiana – altri 250 mila sfollati interni fuggiti dal Nord del Paese verso il Sud, nelle aree sotto il controllo del governo di transizione.
In queste ore gli appelli alla mobilitazione per fronteggiare l’emergenza-profughi si moltiplicano. «I nostri organismi presenti in Mali, Lvia e Cisv, ci segnalano che molte famiglie di Bamako si ritrovano ad accogliere dai 10 ai 30 rifugiati ciascuna», spiega Gianfranco Cattai, presidente di Focsiv (la federazione di Ong di matrice cristiana), creando una situazione di grande vulnerabilità sia per i profughi stessi che per le famiglie di accoglienza».
Sia Caritas Italiana che Focsiv si mobiliteranno, fin dai prossimi giorni, per attivare una campagna di raccolta fondi da destinare al Mali.
Medici senza Frontiere (Msf), intanto, sta chiedendo di poter entrare nelle zone di combattimento, specie nell’area di Konna, dove al momento nessuno può dare assistenza umanitaria perché le autorità militari impediscono ogni accesso. Msf sta operando nelle zone di Mopti, Timbuktu e Gao. «A Douentza», scrive la Ong internazionale, «le nostre équipe sono rimaste bloccate per alcuni giorni, senza la possibilità di ricevere nuovi rifornimenti. Nonostante questo, i pazienti hanno ricominciato a recarsi al centro di salute garantiamo comunque l’assistenza medica».
«Oggi vediamo l’intervento militare nel nord del Mali», aggiunge Federica Biondi, responsabile per la Ong italiana Intersos in Mauritania, «ma, per chi come noi lavora da anni nei Paesi del Sahel sull’emergenze nate dai conflitti sulle risorse naturali, le minacce concrete di una destabilizzazione dell’intera regione erano evidenti».
«Si sono trascurati allarmi e richiami anche dopo la fine del conflitto in Libia, che ha fatto precipitare la crisi nel Sahel con il ritorno di migliaia di combattenti armati nella regione del Nord Mali», aggiunge la cooperante italiana. «Oggi è difficile prevedere cosa accadrà, sappiamo però che decine di migliaia di civili pagano già il prezzo più alto».
Intersos lancia l’allarme su un altro fronte di emergenza: «È in marcia anche un flusso ancora indefinito di persone verso il confine con la Mauritania», scrive in un comunicato la Ong, «dove dall'inizio della crisi nel 2012 assistiamo i rifugiati dal Mali nel campo profughi di Mberra. Oggi oltre 50.000 persone scappate dal Nord del Paese trovano accoglienza e riparo in condizioni difficili dovute alla povertà, alla malnutrizione e al clima estremo del deserto saheliano». Intersos si prepara ai nuovi arrivi di massa, intensificando le operazioni logistiche per ampliare i servizi e far fronte ai bisogni dei nuovi rifugiati.
Luciano Scalettari