Nella motivazione del Premio Nobel che gli venne assegnato nel 1995, si parlava della capacità di Seamus Heaney di far vivere il passato e di dire i miracoli che accadono nel quotidiano. Ecco, il poeta nato nella contea di Derry nell’aprile 1939 e scomparso a Dublino nella giornata di ieri, 30 agosto 2013, faceva questo: mescolava i tempi, le ere geologiche, gli strati della lingua e delle tradizioni letterarie e precipitava questa densa materia in un presente che sapeva di nutrimento terroso e di miracolo.
Non a caso il suo ultimo libro di poesia si intitola Catena umana (2010): l’idea della connessione, della continuità, del darsi la mano lungo un cunicolo di secoli gli apparteneva profondamente. E quanto alla densità scoperta sotto strati terrosi parlano molti suoi versi, a partire da quelli celebri di Digging (“Scavando”) in Morte di un naturalista (1966), in cui si dice che il poeta Heaney scaverà con la penna, come il padre e i suoi avi, contadini, hanno fatto con la vanga.
Heaney era nato nell’Irlanda del Nord, da un’umile famiglia cattolica. Dopo essersi laureato e aver insegnato alla Queen’s University di Belfast, nel 1972 si trasferì nella Repubblica d’Irlanda, nella contea di Wicklow; in seguito per lungo tempo ha soggiornato parte dell’anno negli Stati Uniti, dove insegnava ad Harvard. Docente universitario e saggista raffinato, Heaney non ha mai perso di vista nella scrittura poetica il sapore della materia, la capacità di far percepire il peso e la rugosità delle cose. Antiretorico per cultura ed elezione, tutto viene ricondotto in lui a una presenza netta e quotidiana, in cui i fatti avvengono: anche gli incontri con le ombre, i dialoghi remoti, gli eventi colmi di miracolo.
La capacità più stordente di questa poesia sta proprio nel riprendere e ribadire, con parole proprie, tutta la poesia della tradizione. Insomma nel dire in modo nuovo parlando come da antiche fonti otturate. Con echi e omaggi che possono andare, per stare alla latinità e alla tradizione italiana, da Virgilio a Dante a Pascoli.
Ugualmente anche la politicità della poesia di Heaney, testimone delle tensioni dilanianti dell’Ulster, degli scontri, delle tragedie, è tutta immanente, condensata in fatto e conclusa in evidenza, senza necessità di proclami.
Una lingua acuminata e colta
La realtà è sotto gli occhi, è fatta per essere vista, toccata, compresa
in profondità, fino ai suoi umori ultimi, più che sublimata, resa
emblema, dissolta. L’inglese acuminato, vibrante, irto di Heaney (che si
abbevera alla tradizione gaelica e a quella anglosassone) si è nutrito
di tante letture ed è divenuto a sua volta nutritivo, anche nella forma
delle molte traduzioni d’autore che se ne sono date.
Era un uomo franco,
schietto, che ultimamente la salute debilitata aveva reso fragile. Buon
bevitore, di aperto sorriso, ha spalancato porte sul buio (come suona
un suo titolo) e scavato in profondità: la regalità sepolta di cui si
parla in una poesia di North (La regina della torbiera) è riemersa – da
sotto la torba, dentro la sua lingua – smangiata eppure in qualche modo
intatta.