Ha tenuto un diario Sara Arrigoni, la giovane maestra di Bergamo «quella Bergamo che ha sofferto e che continua a soffrire tanto», dell'ultimo giorno di scuola; giovedì scorso, 4 marzo, quando le hanno comunicato che l'indomani non sarebbero tornati in classe e lei non è riuscita a trattenere le lacrime. Ma solo dopo, finita la giornata in aula e una volta salita in macchina. Pensando al venerdì quando, esattamente come è successo un anno, avrebbe rivisto i suoi piccoli alunni solo in Dad.
Giovedì 4 marzo 2021
12:04
Dario mi scrive un sms “Da stasera scuole chiuse”. Senza punteggiature, né commenti. La mia risposta è altrettanto secca: “sicuro?”
“Sì”.
Sono in aula maestre di una scuola di Bergamo, di quella Bergamo che ha sofferto e che continua a soffrire tanto. Sto correggendo i quaderni dei miei alunni di quarta elementare.
Giro l’iPad verso le mie colleghe sedute di fronte a me. “Da domani siamo a casa” dico. “Leggete”.
La notizia corre veloce e nel giro di pochi minuti tutti lo sanno. Lo sanno i professori delle medie. E delle superiori ai piani alti che ormai ci hanno fatto l’abitudine, lo sanno le bidelle, la preside, le segretarie. Lo sa il direttore della scuola, la signora che pulisce le classi, il tuttofare che sta potando le piante. Lo sanno le mamme che ritirano i bimbi piccoli alle 12:25, lo sanno i papà che iniziano a telefonare in segreteria. Lo sanno i nonni che come soldati in guerra saranno nuovamente invitati a “essere pronti”. Nel giro di qualche minuto lo sanno tutti.
12:25
Torno in classe. Ho la mensa con i miei bambini.
“ Maestra Sara oggi mangio vicino a P. ma domani mangio vicino a te”. Ah già.. i bambini. Loro no che non lo sanno.
In mensa la situazione è quasi comica, c’è la polenta con il formaggio Branzi, roba che più tipica di Bergamo non ci sia. La polenta poi è il mio piatto preferito. Solitamente avrei gioito sapendo della polenta con il formaggio, per quanto sembri strano anche noi maestre abbiamo le nostre preferenze. Mi butto come un ragazzino affamato sul mio piattino di polenta sperando che mi calmi i nervi e che per un attimo metta a tacere i miei pensieri ma la sensazione che provo è assai spiacevole.
Era amara, quella polenta. E stomachevole. Ho ingurgitato quelle forchettate come se fosse il peggior cibo che mi avessero servito. Eppure era polenta. Sempre la stessa. Ero io che ero diversa.
La maestra Sara Arrigoni 28 anni
13:45
Rientriamo in classe dopo la pausa come ogni pomeriggio e lì il dilemma. Glielo dico o non glielo dico?
Due secondi di vuoto. Glielo dico. Perché ho rispetto della loro intelligenza. E perché le brutte notizie fanno un po’ meno male quando sono condivise con le persone a cui vuoi bene. Non posso mentire su una cosa così grande. Non posso promettere loro di pranzare insieme, di leggere “Le cronache di Narnia” come ogni martedì, di giocare con i bastoni durante l’intervallo. Non posso. E non voglio. Meglio una verità che fa male di una bugia che poi fa ancora peggio.
Ho fatto sedere i bambini e ho detto loro che dovevamo parlare di una cosa importante.
Una bambina più sgamata delle altre ha alzato la mano e ha detto “ forse lunedì ci metteranno in zona rossa”. Le ho risposto che non chiuderanno le scuole lunedì ma domani. Il silenzio che ho respirato è stato assordante.
Ho cercato con gli occhi lo sguardo delle mie colleghe in classe insieme a me, quasi per aver un appiglio a cui però non sono riuscita ad aggrapparmi. Da lì, poi, è successo di tutto.
Iniziano ad alzarsi le mani in cerca di spiegazioni, le voci aumentano, qualcuno inizia a piangere. L’approccio iniziale è un invito alla calma. Io e le mie colleghe interveniamo a turno cercando di tranquillizzare tutti, dicendo che non sarà come a marzo, che noi maestre siamo molto preparate, che ciascuno porterà a casa il materiale e che siamo prontissime.
Ma non serve a calmarli. Loro lo sanno, e lo so anch’io.
Loro lo sanno la fatica che hanno fatto a tenere sempre la mascherina. Sanno cosa significhi respirare la stessa aria marcia per ore. Quella mascherina che con pazienza ogni giorno gli abbiamo adattato, perché le mascherine fornite dal ministero se hai la testa grossa non ti entrano e se ce l’hai piccola ti cadono.
Loro lo sanno che il gel che si sono spalmati sulle mani 20 volte al giorno gli ha fatto venire le bolle e non è servito a niente. Quelle bolle che poi chiedevano a noi maestre di curare mettendo altro disinfettante. Divertente no? Un disinfettante per disinfettare una ferita che ti ha causato un disinfettante. Quel disinfettante che non potevamo mettergli e allora tu maestra cattiva ma che li ama troppo per negarglielo hai svuotato un flacone e ci hai messo acqua e amore ma tanto loro che ne sanno? Era la loro anima che hai curato, non la loro pelle.
Loro lo sanno cosa significhi non toccarsi per mesi, cosa significhi non abbracciarsi, non stringersi, non rotolare insieme nel campo.
Loro lo sanno cosa significa portare a casa da scuola ogni cosa ogni giorno, con lo zaino che pesa, i libri e tutto il resto perché “ciò che rimane e non può essere sanificato va buttato”.
Loro lo sanno cosa significa cantare muti “tanti auguri” per i compleanni, perché in classe non è permesso cantare e ci limitiamo allora ad emettere suoni a bocca chiusa. Ma va bene, basta festeggiare. Noi siamo contenti lo stesso.
Loro lo sanno cosa significa stare sempre con le finestre aperte. Sempre. Con qualsiasi clima. E chi non ci crede non li ha visti venire a scuola con i moonboot ai piedi o scrivere con le mani nei guanti.
Loro lo sanno cosa significa non poter condividere una caramella, un pezzo di merenda, un dolce con gli amici. Li ho visti con i miei occhi infilare nelle cartelle di un compagno un pezzo di biscotto o arrotolare nei fogli di carta della scheda che gli hai appena consegnato qualche patatina. Perché lasciare un compagno senza merenda è più grave che infrangere una regola.
Loro lo sanno cosa vuol dire giocare senza giochi, fare la lotta per finta, giocare a lupo senza prendersi o a calcio senza palla.
“Ho paura” ci dice L. mentre piange. “Perché io durante il lockdown ho fatto fatica e a casa sono da sola”.
“Ho paura di non tornare più” interviene B.
I bambini arrivati da poco non parlano, piangono solo. Perché proprio adesso che si erano fatti degli amici?
Leggo la rabbia, la tristezza, la delusione nei loro occhi. Per aver fatto tanto e per aver ottenuto quello che non volevano. Tornare a stare soli.
Il formicaio che ho davanti non si ferma. Mettono in cartella tutto quello che trovano. Bottigliette vuote, ritagli di carta, graffette rotte. Come gente che si prepara scappare da una casa che di lì a breve crollerà.
Ho provato un’altra strategia per calmarli, quella della fermezza, dell’autorevolezza, del rimprovero. Ho detto loro che dobbiamo anche crescere un po’, che siamo grandi, che siamo fortunati a poter fare comunque didattica a distanza, che tante scuole non la faranno e lì sì che sarà brutto. Ma non noi. Noi siamo pronti. E sarà per poco. Ma ero davvero poco credibile. E loro questo lo sanno.
Gli abbiamo promesso che non li lasceremo soli, che aspetteremo tutti. Che faremo tutto quello che potremo e quando non basterà faremo di più. Ho detto loro che sappiamo già come sarà. E il punto forse è proprio questo, che loro sanno già come sarà. E sarà brutto, difficile, alienante.
E hanno paura.
E ne ho anch’io.
E nonostante dica sempre loro che essere veri è la cosa più importante questa volta non ci sono riuscita.
Non gli ho detto che ho paura.
Ho detto loro che sono tranquilla. Gli ho mentito e loro mi hanno creduto. Perché gliel’ha detto la loro maestra. E la loro maestra non gli racconta bugie.
14:45
Sto uscendo dall’aula. La mia ultima ora è terminata e fra poco arriverà la maestra di musica. Si alza una bambina per salutarmi ed abbracciarmi, istintivamente allargo le braccia, si alzano tutti. Non ho potuto. Ho mandato baci al vento dicendo che ci saremmo visti oggi in videolezione e ho chiuso la porta veloce. Non ho potuto abbracciarli. Cattiva di nuovo.
14:50
Ho chiuso la portiera della macchina. Finalmente posso piangere.