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venerdì 11 ottobre 2024
 
 

Uccise 69 volte, don Melesi lo convertì

24/05/2013  Consegnata la laura ad honorem al cappellano di San Vittore, sempre dalla parte dei detenuti e degli ultimi

Una messa, un’omelia sull’essere uomini, un abbraccio, una confessione. Alla fine, dopo l’incontro con don Luigi Melesi, il killer professionista si autoaccusa di 69 omicidi. “Alla mia domanda su cosa lo avesse spinto a questa decisione”, racconta il sacerdote, “mi ha risposto: Voglio essere un uomo”. Ne racconta tanti di episodi, don Luigi, salesiano, 80 anni, dal 1978 cappellano a San Vittore.

Nel giorno in cui l’Università pontificia salesiana gli conferisce la laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione sociale, Cattedra Comunicazione ed educazione, don Melesi trattiene a stento la commozione. “La prima volta che sono andato nel braccio di massima sicurezza, dove erano detenuti i brigatisti ho detto messa con tutti i blindo, cioè le porte blindate in aggiunta alle sbarre, chiusi. Nessuno di loro aveva voluto aprire neppure lo spioncino. A don Giorgio, il capo dei cappellani, che mi chiedeva come era andata ho risposto che era andata bene. E al suo stupore ho spiegato che non avevano fischiato né contestato in alcuna maniera. Le volte successive si è aperto qualche spioncino, poi il blindo lasciando le grate chiuse, alla fine volevano tutti parlare con me”.

Ne arrivano tante di testimonianze sulla capacità di don Luigi di dialogare con tutti. Ernesto Balducchi, ex di Prima linea, ricorda la mediazione del sacerdote per la consegna delle armi al cardinale Martini, il 13 giugno del 1984: “ti brillavano gli occhi quando mi hai portato la sua disponibilità a ricevere in arcivescovado, a Milano, le armi che i miei compagni ancora liberi detenevano”. Tra il pubblico c’è Agnese Moro, ci sono Giovanni Maria Flick, il vescovo Enrico Dal Covolo, tanti ex detenuti, i ragazzi dell’università salesiana, i suoceri di Giorgio Semeria, da poco scomparso, e che, come ricorda qualcuno, “uscito dal carcere è voluto andare a fare il suo viaggio di nozze nel Mato grosso, nella missione di cui don Luigi parlava e dove lavoravano i suoi fratelli”.

Franco Bonisoli, ex delle Brigate Rosse, tira fuori dalla tasca un naso rosso, come quello usato nelle recite e nelle opere teatrali con i ragazzi difficili di Arese, in una casa trasformata, da carcere minorile, in comunità educativa. “Per noi sei stato un testimone credibile”, dice Bonisoli. “Quando ci siamo conosciuti non eravamo certo persone disponibili al dialogo con chi rappresentava le istituzioni, anche quelle della Chiesa. Ma tu hai avuto fiducia e tanto coraggio, retto da una fede che non conoscevamo. Hai avuto il coraggio di scommettere su piante in cui nessuno credeva e hai visto una foresta che silenziosamente è cresciuta”.

E prima della consegna ufficiale della pergamena, alla presenza del rettore don Carlo Nanni, Bonisoli va al cuore del senso dell’onorificenza: “Sei stato, sei, per noi l’uomo della comunicazione vera, quella che va al cuore delle persone”.

“Adesso che ho capito che cos’è il carcere, mi sono commosso e non potrò più giudicare”. Luigi Pagano, direttore “storico” di San Vittore racconta, senza fare il nome, la storia di un magistrato milanese molto noto che ha lasciato la toga dopo il Giubileo del 2000. Invitato a San Vittore da don Luigi, il magistrato assistette alla messa nella rotonda del carcere. “Un complesso difficile dove, a fronte di 800 posti, sono stati detenuti anche in 1900”, spiega Pagano. “Don Luigi entrava in ogni anfratto e convertiva le persone. Fu lui che portò il cardinale Carlo Maria Martini a visitare il nostro istituto. E fu insieme con lui che il cardinale, per la prima volta, andò verso la sezione dell’alta sicurezza. Aveva visitato cella per cella tutti i detenuti, ma non ci aspettavamo che volesse andare proprio verso la zona più rischiosa. Allora quel suo gesto fu uno scandalo, nel senso cristiano. Ma uno scandalo che don Luigi aveva preparato”. Avvenne così, continua Pagano, “anche per quella messa nella rotonda di San Vittore con i detenuti. Una situazione molto suggestiva, con una omelia del cardinale Martini incentrata sulle parole di Giovanni Paolo II: ‘il tempo non appartiene agli uomini’. A un certo punto, non so da dove, don Luigi tirò fuori una colomba e la fece volare. I detenuti, commossi, cominciarono ad applaudire gridando: ‘libertà, libertà’. Fu a quel punto che il magistrato, conosciuto come uno dei più duri disse a don Luigi che gli aveva giocato un brutto scherzo perché da quel momento in poi cambiava la sua concezione del carcere e della pena”.

L’ultima condanna all’Italia della corte europea dei diritti dell’uomo è dello scorso dicembre. Il nostro Paese è stato condannato per il trattamento inumano e degradante derivante dal sovraffollamento. Lo ricorda Carlo Maria Flick, già ministro della Giustizia e ora presidente della Corte Costituzionale, intervenendo alla cerimonia di consegna della laurea a don Melesi. “Le denunce di don Luigi sullo stato delle carceri sono in buona compagnia, dice il giurista, “perché sono assieme a quelle del Papa, del presidente della Repubblica, della commissione senatoriale sullo stato delle carceri e sul rispetto dei diritti umani, oltre che assieme alle condanne della Corte europea. Siamo arrivati al paradosso che alcuni giudici si sono rivolti alla Corte costituzionale per chiedere di ampliare le norme che consentono il rinvio della pena. In pratica resterebbe la condanna, ma non la possibilità di andare in carcere perché lo Stato non riesce ad assicurare il minimo di dignità nell’esecuzione della pena”. Flick invita a rileggere e ad applicare la Costituzione, in particolare “quell’art 27 che regola il rapporto tra Stato e uomo nel momento dell’esecuzione della pena e che è una delle norme meno attuate della nostra Costituzione”. La norma, ricorda Flick, stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Due affermazioni tanto belle quanto retoriche. Dobbiamo collegarci a un’altra norma della Costituzione, quella della pari dignità sociale, a cui hanno diritto tutti: i più deboli, le donne, i bambini, i migranti clandestini, i malati, i detenuti…”.































Il presidente della Corte sottolinea che la dignità e il rispetto “vanno garantiti anche durante la pena detentiva”. Ma non solo, Flick insiste sul fatto che “la società è convinta che la pena detentiva o il toccare la persona nel portafoglio siano la sola cosa immaginabile. Senza renderci conto che in realtà il carcere è diventato una discarica sociale per soggetti 'diversi': 30 per cento di tossicodipendenti, 30 per cento di immigrati clandestini. Eppure continuiamo a penalizzare, a invocare la pena detentiva come unica soluzione. Non è possibile garantire quei diritti che tutti devono vedere rispettati”.































Anche sul fronte della rieducazione Giovanni Maria Flick snocciola i dati facendo presente che ”le misure alternative al carcere, il rapporto con la società, il volontariato come ponte tra il carcere e il territorio danno dei risultati. In chi sconta interamente la pena detentiva c’è un tasso di recidiva del 90 per cento, in chi dal carcere passa alle pene alternative il tasso di recidiva, cioè di ripetizione del rato, cala al 20 per cento”. Per questo, conclude, "il carcere va aperto alle misure alternative e alla responsabilità di chi sta scontando la pena”.

 
 
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